15 gennaio 2014

musica – ESECUZIONE, INTERPRETAZIONE, ASCOLTO


ESECUZIONE, INTERPRETAZIONE, ASCOLTO

Il modo di ascoltare la musica è incredibilmente vario: si va dalla estrema superficialità e impermeabilità (dunque dalla sostanziale incomprensione del testo) alla partecipazione esclusivamente emotiva (senza reale attenzione ai contenuti musicali), dalla esasperata attenzione alla esecuzione (privi della capacità di commozione) alla totale immedesimazione nel testo (senza essere capaci di valutarne l’interpretazione). Si è troppo facilmente influenzati dal proprio bagaglio culturale, dalla conoscenza della musica in generale e di quella che si sta ascoltando in particolare, dall’umore e dalla disposizione d’animo del momento, dall’ambiente fisico (la sala, la casa, la presenza di altre persone, il posto in cui si siede) o ancor più dal “clima” che vi aleggia. Lo stesso pezzo riascoltato in altra circostanza ci appare diverso (si può verificare anche solo con due repliche alla Scala, ascoltate una volta in platea e un’altra in palco!); il pianista che un anno fa ci apparve mirabile ora ci sembra sciatto; l’interpretazione di una sinfonia che ci era sembrata improponibile, riascoltata la giudichiamo apprezzabile e felicemente innovativa.

musica02FBChi ascolta musica con impegno lo sa: bisogna saper distinguere fra il significato proprio del testo, il valore dell’esecuzione, la qualità dell’interpretazione. Sono tre diverse componenti che è necessario sia tenere distinte, sia fondere in un unico sentire e valutare per provare il complesso piacere dell’ascolto. Soprattutto bisogna sapersi difendere da ciò che è estraneo alla musica e che può condizionare il nostro capire e il nostro godere.

Cito a sostegno di questa tesi il fondamentale saggio “Fedeltà al testo e interpretazione musicale” che Andrea Massimo Grassi – musicologo e straordinario clarinettista – presentò a un seminario di filologia musicale (*) tenutosi alcuni anni fa a Pavia, nel quale discusse tre questioni fondamentali per l’interprete ma a mio avviso ancor più per noi ascoltatori: (1) cosa significa “fedeltà al testo”, (2) quali equivoci possono interferire con essa e sviare l’interprete, e (3) in quale misura può limitare l’interpretazione musicale.

Grassi sostenne che “la fedeltà al testo non consiste nella pedissequa ripetizione di un testo scritto bensì in una forma mentis che comporta la conoscenza e la comprensione del pensiero musicale di un autore” e che dunque l’esecuzione è “un atto squisitamente intellettuale che richiede una costante e profonda riflessione su aspetti estetici, stilistici, interpretativi, analitici e storici”. Ritengo che questo valga non solo per esecutori e interpreti, ma anche per quanti vogliano trarre dall’ascolto tutto il godimento che esso può dare.

Facevo queste considerazioni giorni orsono mentre ascoltavo un violinista che – sotto un portico affollato di persone in cerca dei saldi di stagione – suonava più che egregiamente la difficilissima Ciaccona di Bach, dandone una curiosa interpretazione, forse vagamente tzigana ma non priva di fascino e di emozionalità. Ho fatto molta fatica a raccapezzarmici e a esprimere una opinione libera da pregiudizi mentre mi si riaffacciava alla mente un episodio da cui ero rimasto molto suggestionato qualche anno fa.

Joshua David Bell, come si sa, è un grande concertista americano: ha iniziato a suonare il violino all’età di cinque anni e a quattordici già esordiva come solista con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti. Ha vinto un bel po’ di premi, fra cui il Grammy Award, e dal 2011 è il direttore stabile dell’orchestra dell’Accademia di Saint Martin in the Fields. Aveva quarant’anni nel 2007 quando un giornalista del Washington Post, tale Weingarten, organizzò e gli propose un esperimento curioso e molto intrigante: nell’ora di punta del mattino lo fece suonare in incognito nell’atrio di una stazione della metropolitana della capitale, con il cappello posato in terra davanti a sé per raccogliervi le offerte, proprio come un accattone. Con il suo Stradivari del 1713 che valeva 3,5 milioni di dollari Bell ha suonato Bach, Schubert (l’Ave Maria), Ponce, Massenet e poi ancora Bach; pezzi difficilissimi che, facendo registrare il tutto esaurito, aveva eseguito appena due sere prima nella Symphony Hall di Boston dove, per un solo posto, bisognava sborsare mediamente 100 dollari.

L’evento venne videoregistrato con una telecamera nascosta e così si vide che di oltre 1.000 persone transitate davanti a lui solo 7 si fermarono brevemente ad ascoltare e solo una lo riconobbe; in quasi 45 minuti Bell raccolse poco più di 30 dollari da poco meno di 30 passanti. Per inciso, l’articolo su questo esperimento fruttò a Weingarten il premio Pulitzer del 2008!

Subito dopo, questa storia (vera) fece il giro del mondo grazie a un power point che si trovava con facilità in rete. Una storia che ancora oggi mi frulla per il capo e mi costringe a chiedermi se siamo veramente capaci di riconoscere la qualità di una esecuzione “fuori contesto”, in situazioni “improprie”, e quanto siamo condizionati dal “rito” del concerto e dal suo apparato scenografico: condizionamento diverso, si badi bene, ma non meno penetrante della pressione mediatica esercitata dallo starsystem che – come si verifica di continuo – è in grado di decretare a priori il successo di un interprete prescindendo dalla bontà della sua prestazione. Soprattutto mi domando cosa avrei pensato, capito, fatto, se mi fossi trovato quel mattino in quella stazione della metropolitana di Washington.

 (*) Università di Pavia, Dipartimento di Scienze Musicologiche e Paleografico – filologiche, Centro di Musicologia Walter Stauffer: Quinto Seminario di filologia Musicale “Mozart 2006”, a cura di Giacomo Fornari, edizioni ETS

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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