8 gennaio 2014

CAMBIARE VERSO AI POTERI LOCALI? SVUOTARE LE PROVINCE?


Passata in prima lettura alla Camera la legge cosiddetta “svuota province” può forse tornare utile proseguire il dialogo svoltosi su queste colonne (n. 44 V/2013) che si era sospeso con l’interrogativo rivolto alla politica riformista: una volta “risciacquati i panni in Arno” in quale verso cambiare i poteri locali? In particolare si era discusso della natura e delle funzioni dell’ente intermedio (provincia e città metropolitana) e del superamento della polverizzazione dei piccoli comuni e della dispersione in una moltitudine di enti sovra-comunali consortili e simili. Al riguardo si propone un’analisi critica (*) del testo, peraltro approvato in un contesto di incertezza e genericità di indirizzi politici generali (con Delrio Province addio! E poi?), nonché le seguenti considerazioni.

02ballabio01fbBallabio: Proviamo a ripercorrere in sintesi la funzione delle Province dopo il superamento nel 1990 della “legge comunale – provinciale” che dal 1915 aveva accompagnato tutto il “secolo breve”. Ancora i licei classici e artistici erano tenuti direttamente dai comuni, mentre alle province erano affidati i licei scientifici e gli istituti tecnici. Poi si decise di unificarli in capo alle province, anche come “risarcimento” per la perdita degli ospedali psichiatrici e dei laboratori provinciali di igiene e profilassi in seguito alla riforma sanitaria. Dunque sarebbe possibile anche il contrario, senza laboriose convenzioni, spostando semplicemente nei comuni sede delle rispettive strutture la spesa storica e le relative risorse umane e strumentali. Per altro, sempre a titolo di compensazione per lo svuotamento che ne metteva a repentaglio la sopravvivenza, furono attribuite alle province – fine anni ’90 – “competenze” in materia di agricoltura, ambiente e lavoro. Ma dell’ambiente se ne occupano tutti (dall’ARPA all’assessorato del più piccolo comune) e nessuno. Il lavoro invece fu sdoppiato tra collocamento obbligatorio degli invalidi e cosiddette “politiche attive” trasferiti alle province e invece funzioni ispettive e conciliative rimaste ministeriali!

Circa l’agricoltura provvide la legge regionale a riservare loro il contentino riguardo gli ambiti “strategici”, per quanto possano ritenersi tali le padane monoculture di granaglie, mentre i Piani territoriali di coordinamento, introdotti sempre dalla legge 142/1990 per la complessiva materia urbanistica, non sono mai decollati. Bloccato il generoso ma sfortunato tentativo della prima Giunta provinciale di centrosinistra post-mani pulite (assessore all’urbanistica Targhetta) dal veto arrogante e ultimativo del centrodestra milanese (assessore all’urbanistica Lupi) le successive alterne amministrazioni provinciali hanno cincischiato a vuoto nel timore di disturbare i comuni “padroni in casa propria”. La legge regionale 12/2005 ha poi provveduto a dare il colpo di grazia, col risultato di polverizzare poteri decisivi per la qualità del territorio tra i millecinquecento e rotti comuni lombardi, ovvero sanzionando una sostanziale deregulation e consentendo di fatto un’imponente e incongruente cementificazione “stravaccata” (come direbbe Beppe Boatti) tra i monti e il piano!

Targetti: I piani territoriali delle province provvisorie, non decideranno nulla di sostanziale, come accade oggi a Milano dove tra gli obbiettivi strategici del PGT comunale e del PTC provinciale non c’è alcuna relazione. A dimostrazione prendiamo un tema “à la page”: il consumo di suolo strettamente legato alla tutela del suolo agricolo ma non solo. L’aspetto più drammatico non è tanto quello quantitativo (che pure è preoccupante) ma la sua distribuzione che, nelle aree densamente urbanizzate come l’area centrale lombarda, ha destrutturato il territorio agricolo, aggredito quello naturale e degradato il paesaggio. Il compito di ridurre il consumo di suolo non può che essere affidato ai piani territoriali (i limiti massimi di consumo stabiliti per legge “per ogni comune” non farebbero che consolidare il difetto originale della diffusione insediativa).

 

Ora immaginiamo il nostro Sindaco metropolitano che è sindaco del comune capoluogo o il Sindaco-presidente della provincia provvisoria, che decide con il Piano territoriale che il suo comune può “consumare suolo”, (magari giustamente, perché il piano prevede un nuovo insediamento in corrispondenza di una stazione del trasporto pubblico su ferro) e può così intascare oneri di urbanizzazione, IMU, Tares ecc, mentre altri comuni non possono urbanizzare un metro quadrato di suolo agricolo per motivi ambientali e di tutela del paesaggio? Torneremmo ai conflitti armati tra comuni, come nel medioevo! In realtà il nostro Sindaco metropolitano o sindaco-presidente non potrà che procedere a una equa distribuzione del consumo di suolo nel nome di un equo “sprawl“. Sarebbe invece necessario che la Provincia, eletta direttamente da tutti i cittadini, avesse il potere di pianificare il territorio, libera da condizionamenti locali, ma anche di ripartire equamente i vantaggi e gli oneri delle trasformazioni territoriali di rilevanza sovra-comunale (oneri, IMU, Tares, ecc.), così come dovrebbe poter fare la Città metropolitana.

Ballabio: Eh si! Temo invece che nuove province e “città metropolitane” si ridurranno ai noti “tavoli” di sindaci, incapaci di accordarsi persino sulle domeniche a piedi … L’altro punto di discussione, in questo nostro colloquio, interessante per gli affezionati dieci lettori, riguarda l’accorpamento dei piccoli comuni. È più difficile accorpare i piccolissimi (1.000/2.000 abitanti) oppure procedere per gruppi più consistenti sino a raggiungere la soglia minima di circa 30/40.000? Apparentemente sembra più praticabile la prima ipotesi, ma ritengo invece che siano proprio i campanilismi e i particolarismi dei piccolissimi a fare barriera, mentre se provi a imporre raggruppamenti più grandi, diciamo della dimensione delle comunità montane, allora può valere il criterio del “mal comune mezzo gaudio” ad attutire le resistenze localistiche. Purtroppo la furia abolizionista degli “enti inutili” ha colpito la logica associativa delle comunità montane invece di rivolgersi verso i nano-municipi, inefficienti per definizione nonché pericolosi per i rischi di compromissione ambientale e paesaggistica dei rispettivi territori, spesso assai ampi e/o pregevoli.

Targetti: Il disegno di legge detta criteri e scadenze per l’accorpamento dei piccoli comuni e per la gestione unitaria obbligatoria delle funzioni comunali da parte delle Unioni dei Comuni, che vanno costituite con una dimensione minima di 10.000 abitanti (salvo i territori montani). È la parte buona della proposta di legge; la comprensione del testo in questa parte è assai faticosa perché rinvia continuamente ad altre norme, ma è chiaro l’obbiettivo di raggiungere una dimensione ottimale per una più efficace gestione delle funzioni comunali (economie di scala), non sovra comunali. Le nuove partizioni amministrative sarebbero certo più funzionali rispetto agli attuali 8.000 Comuni per la gestione dei servizi locali ma non potrebbero sostituire le provincie nel governo del territorio e delle relazioni sovra comunali, sia per ragioni di dimensione territoriale sia per ragioni di rappresentanza democratica. Se invece di abolirle le province venissero ridotte di numero ma rafforzate, affidando loro tutte le funzioni sovra-comunali, potrebbero assorbire buona parte degli enti strumentali, e razionalizzare un comparto pubblico che produce ben 2,5 miliardi di spese di gestione. Le unioni di comuni non potrebbero fare altrettanto per ragioni di numerosità (si calcola che ce ne vorrebbero almeno 600 per coprire tutto il territorio nazionale), dimensioni territoriali, organizzazione gestionale e rappresentanza politica.

Ballabio: Ci pare dunque che complessivamente il ddl in parola più che cambiare verso proceda all’inverso rispetto a un assetto razionale e costituzionale dell’ordinamento, fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (art. 118). Questo vale anche per l’ipotesi di trasformazione del Senato in un’incomprensibile e inutile “camera delle autonomie”, come chiarito nella tua più completa analisi qui allegata. Ma apertura al confronto e contributi di idee ed esperienze (sopratutto se volontarie e gratuite!) paiono poco praticabili … rispetto a un Sistema politico sinora bloccato e a un improprio e improvvido Legislatore, interessati piuttosto agli annunci e agli effetti (mediatici) speciali!

Targetti: Ridurre i costi della politica è un atto di etica pubblica necessario. Perseguire un qualsivoglia risparmio pur di far vedere che si fa qualche cosa, senza valutarne gli effetti, non è politicamente etico. Per una riforma fondamentale come quella del sistema delle autonomie mi aspetterei che un serio partito riformista adottasse, oltre alla valutazione degli equilibri di potere e degli interessi in campo, anche un approccio scientifico-razionale, ovvero: conoscenza dei fenomeni che si intende governare (distribuzione della popolazione e delle attività, struttura dei territori, flussi e dinamiche), valutazione della loro dimensione (non ultima la spesa nei diversi comparti), simulazione costi/benefici, comparazione con i paesi europei, priorità di intervento, ecc. Tutto ciò che è mancato nella preparazione del disegno-legge di Delrio. Speriamo che per le riforme costituzionali i nuovi giovani dirigenti del PD abbiano una maggiore libertà intellettuale e lascino alle campagne elettorali gli slogan mediatici; insomma davvero cambino verso!

 

Valentino Ballabio e Ugo Targetti

 

(*) per una lettura completa clicca qui



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