15 giugno 2009

MILANO E LA FAME. MANGIARE MEGLIO MANGIARE TUTTI


Se quando si parla di Expo – d’altro ormai non si parla – si guarda solo alle aree edificabili, strade e mattoni, la spiegazione più semplice è che gli affari sono affari e che il dibattito è tra chi vuole farli alla faccia di tutti e chi si oppone cercando di mettersi in salvo dall’avidità altrui. C’è un’altra ragione però. Del tema dell’Expo, nutrire il mondo, è difficile parlare.

Parlarne vuol dire farsi carico di un problema, la fame, che non ci tocca personalmente e che non vediamo con i nostri occhi se non molto raramente: vedere morire di fame a Milano è uno spettacolo fortunatamente inconsueto. La morte dei poveri a Milano la porta di solito il freddo. Abbiamo bisogno d’immagini fotografiche, di filmati televisivi, di racconti e di statistiche per cominciare ad avvicinarci al problema: le code di gente che cerca di sfamarsi aiutata dalla carità dei religiosi sono visibili ma forse non basta. Il peggio, i bambini denutriti, non li vediamo nelle nostre strade.

 

La sociologia urbana ha cercato di indagare sull’uomo di città, sulle sue pulsioni, sul suo modo di aggregarsi e drammaticamente ha costatato lo sbriciolamento dei valori collettivi: una società ricca che li perde s’inselvatichisce, una società povera non ha spesso abbastanza energie libere dal bisogno per crearsi valori collettivi. Nonostante gli sforzi di molti volonterosi sembra che il mondo, se non si pone qualche rimedio, andrà dividendosi tra selvaggi poveri e selvaggi ricchi. Milano da che parte sta andando? È la scommessa dei prossimi anni, anche senza aspettare il fatidico 2015. Le strade che si aprono davanti a noi sono solo due: una strada indicata dall’ONU e una indicata dai movimenti che si fanno carico della fame nel mondo. L’ONU ha una visione tecnocratica e ottimista: a grandi linee, se i Paesi sviluppati razionalizzeranno la loro agricoltura e dedicheranno molte risorse a favore di quella dei Pesi sottosviluppati investendo capitali localmente, ci sarà da mangiare per tutti. La posizione dei movimenti è diversa: il modello attuale di alimentazione dei Paesi sviluppati, modello che va estendendosi dietro la pressione della pubblicità commerciale, non è sostenibile e quindi bisogna partire da qui per operare. Non solo due strategie diverse ma un diverso coinvolgimento sociale: produrre di più concerne i produttori, un’esiguissima minoranza, cambiare modello di vita coinvolge tutti. Sono due strade alternative? Nemmeno porsi il problema perché in questi casi vale il principio di precauzione: si deve fare tutto.

 

Milano ha un’occasione sociale di grande respiro nell’Expo, deve imboccare le due strade: il meglio del suo sapere nell’agricoltura, il meglio del suo sociale nella strada della parsimonia. Come valutare i risultati? Nel primo caso il confronto scientifico internazionale e la sperimentazione, nel secondo caso usando misuratori indiretti ma efficaci come la quantità di rifiuti solidi urbani pro capite o il consumo di energia elettrica domestica. In provincia di Milano ogni anno produciamo 5 quintali di rifiuti solidi per persona – neonati compresi – con una maggior quota per il centro urbano milanese. Saremo capaci di ridurre gli sprechi, soprattutto alimentari? Riusciremo ad avviare a incenerimento una quota inferiore di derrate alimentari scadute o non più utilizzabili. Ogni tanto ci domanderemo come mai qualche anno dopo la guerra del ’40 il mondo aveva riserve alimentari per un anno e oggi per meno di 40 giorni? La crisi economica e la caduta dei redditi delle famiglie sta già cambiando qualcosa. In altra parte del giornale parliamo dei gruppi di acquisto solidale; la novità ed il successo dei “farmer market” milanesi son ormai di dominio pubblico. Forse il segnale di una resistenza all’avanzare del selvaggio.

 

Filippo Beltrami Gadola



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