18 dicembre 2013

CAMBIARE VERSO AI POTERI LOCALI: IN QUALE DIREZIONE?


A margine del convegno dell’INU sulla riforma della legge urbanistica regionale, tenutosi alla Triennale il 3 dicembre, sul contributo critico di Ugo Targetti (*) si è prodotto un breve carteggio riguardo gli aspetti istituzionali connessi che – data la concomitanza con la discussione parlamentare in corso sul Disegno di legge cosiddetto “svuota-province” – può rivestire qualche interesse. A partire dal seguente passaggio:

02ballabiotargetti44FB“Non ultima ragione che induce alla revisione della legge urbanistica regionale è l’istituzione delle città metropolitane e l’eliminazione delle province, proposte dai due ultimi governi Monti e Letta. L’istituzione della città metropolitana è una riforma necessaria, utile soprattutto alla Lombardia, ma molto indebolita dall’impostazione del Governo (sistema elettivo di secondo livello, processo di formazione incerto, poteri indefiniti, impegno sine cura del sindaco metropolitano e degli amministratori, ecc). Per quanto riguarda le province il Ddl si accinge a svuotarne i poteri in previsione di eliminarle dalla Costituzione, lasciando il governo di livello intermedio nella più totale incertezza. È un grave errore. La prospettiva di riforma delle istituzioni utile alla organizzazione territoriale della nostra società dovrebbe andare esattamente nella direzione opposta, ovvero rafforzare le Province affidando a esse tutte le funzioni e le relazioni sovra e inter-comunali che sono sempre più consistenti. L’eliminazione delle province determinerà, in particolare nelle grandi regioni, un danno grave alla gestione del territorio e ne aumenterà la confusione e i costi.”

Ballabio a Targetti: “Apprezzo la tua analisi ma l’osservazione riguarda l’aspetto istituzionale, inscindibile da una riforma seria della legislazione urbanistica. In particolare per salvare come è giusto l’ente intermedio è necessario prevederne una radicale modifica. Città metropolitana: deve almeno estendersi all’area metropolitana; inammissibile la coincidenza con l’attuale provincia mutilata dalla scissione monzasco – brianzola. Inoltre non regge se Milano non procede a un energico decentramento e al superamento tendenziale del comune unico. Province: sono più difendibili se accorpate (vedi l’abortito decreto Monti) o perlomeno se rientrano le neo (Lodi, Lecco, Monza) per tornare all’eccellente criterio della raggiungibilità del capoluogo “con una giornata a cavallo”. Inoltre devono essere liberate dalle competenze gestionali (manutenzione di strade, scuole, ecc) per dedicarsi al governo strategico dell’area vasta con organi elettivi ma snelli (giunte di 3/4 assessori).”

Targetti a Ballabio: “Condivido tutte le tue considerazioni salvo l’ultima. Mi sto convincendo che se si vuole davvero introdurre semplificazione e ottenere contenimento della spesa pubblica il modello debba essere adattato alle dimensioni delle regioni (ci sono regioni meno popolose della provincia di Brescia) ma che per le grandi, come la Lombardia, il modello debba essere: la regione legifera, programma la spesa e gestisce poche cose essenziali. Città metropolitana e provincie pianificano e gestiscono tutte le funzioni sovra-comunali compresa la sanità, eliminando tutti gli altri organismi intermedi (ATO, consorzi, parchi non regionali, ASL, ecc.). I Comuni, unificando quelli piccoli, fanno tutto il resto. L’UPI ha calcolato per esempio che il passaggio delle scuole superiori ai comuni comporterà l’aumento da 100 centri di spesa a 1400, con evidente riduzione dei vantaggi di scala. Nel mio modello le Provincie vanno caricate di funzioni e naturalmente gli organi politici devono essere eletti direttamente. La spesa delle regioni è di 168 miliardi se risparmiassero l’1 per mille sarebbero coperti i costi “della politica” delle province. A questo punto credo di avere dieci sostenitori come i lettori del Manzoni.”

B. a T.: “Ragioniamo sul punto di dissenso. Credo infatti che le province siano salvabili solo differenziandone nettamente le funzioni rispetto ai comuni, riducendo dunque al minimo i compiti gestionali. L’UPI dovrebbe sapere che i 1400 centri di spesa relativi alle scuole superiori non sarebbero aggiunti bensì assorbiti dai Comuni (in genere medio – grandi) dove le stesse sono ubicate, già ampiamente dotati di servizi e uffici atti a gestire materne, elementari e medie inferiori. Il vetraio del mio paese non si capacita di dover sdoppiare commesse, appalti, contabilità, ecc. tra Comune e Provincia allorché lui si considera giustamente un unico “centro” di manutenzione (“sun semper mì”). L’economia di scala sarebbe inoltre assicurata se, oltre a dimezzare le Province, si potesse dimezzare al quadrato il numero dei Comuni (il 70% dei quali non supera i 5.000 abitanti). Otterresti allora delle entità sufficientemente consistenti (diciamo dai 30/40.000 almeno) per amministrare al meglio oltre alle funzioni correnti anche talune attualmente consortili o collegate. Le stesse ASL in origine erano USL ovvero i comuni singoli o associati, ricomprendenti anche gli ospedali di base, poi divenuti “aziende” in capo alla Regione (trasformatasi a sua volta da ente legislativo in ibrido mostro amministrativo!). Tutto questo in teoria, a beneficio dei benevoli dieci lettori, poiché la prassi politica e parlamentare dominante (vedi il pasticcio del Ddl governativo attualmente in discussione alla Camera!) va ovviamente da tutt’altra parte…”

T. a B.: “Ciò che mi/ci indigna è l’assenza di qualsiasi disegno riformatore completo e coerente; la parola d’ordine è “eliminare le province perché così vuole il popolo, poi si vedrà”. Se ragioniamo in termini di fattibilità politica, forse hai ragione tu: salviamo le funzioni preminenti delle provincie che sono: pianificazione del territorio, viabilità e trasporti, smaltimento dei rifiuti, ciclo delle acque, e poco altro e affidiamo il resto ai comuni, ma con un robusto accorpamento. Se invece ragioniamo liberamente in termini di architettura razionale del sistema può valere il modello da me sopra sintetizzato per quanto non piaccia ai “comunardi” che lo considerano erroneamente gerarchico e che ritengono che tutti i poteri reali debbano stare in capo ai comuni, indipendentemente dalle dimensioni. Se vogliamo semplificare la pubblica amministrazione ritengo vadano eliminati gli organismi intermedi settoriali, compresi i consorzi e le varie associazioni intercomunali; in passato hanno avuto un ruolo anche positivo, ma oggi sono diventati elementi di appesantimento del sistema. Pensiamo all’esempio che tu fai delle scuole superiori. Dovrebbero essere gestite dal comune sede della scuola, ma con convenzioni di gestione faticosa e soggette a continui ripensamenti “politici”. Meglio inoltre limitarsi a unificare i piccoli comuni fino a 1.000 o 2.000 abitanti, numerosi nelle regioni del Nord, che diventerà tra breve una necessità imprescindibile, mentre la proposta di unificare comuni di 5.000/10.000 abitanti o più incontrerà resistenze fortissime perché a quel livello si manifestano già interessi consistenti e politicamente pesanti.

Ci sono anche altre ipotesi di riorganizzazione amministrativa. Ad esempio la Società geografica italiana ha recentemente proposto, sulla base dell’analisi delle relazioni territoriali, di eliminare provincie e regioni e di organizzare il territorio nazionale in 36 sistemi urbani come unico livello territoriale di area vasta. L’idea di raddoppiare quasi i centri di produzione legislativa mi sgomenta un po’ ma la proposta è la riprova che avrebbero potuto essere sondate nuove ipotesi. Sono invece tuttora mancate, da parte di Governo e Parlamento, simulazioni dettagliate di modelli diversi, accompagnate da ipotesi organizzative articolate, stime dei costi, fasi di attuazione, ecc.”

B. a T.: “Condividendo con te da sempre i saggi richiami manzoniani vien da chiedersi se la politica riformista, ora che ha “sciacquato i panni in Arno”, riuscirà mai a imboccare un giusto verso?

 

Valentino Ballabio e Ugo Targetti

 

(*) clicca qui per leggere il testo completo



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