18 dicembre 2013

sipario – INTERVISTA A FAUSTO RUSSO ALESI


 

INTERVISTA A FAUSTO RUSSO ALESI

Sei in scena al Piccolo Teatro con Natale in casa Cupiello, da solo. Come mai hai deciso di trasformare il testo di Eduardo in un monologo? Tutto parte dall’esigenza di incontrare la drammaturgia di Eduardo. Era da tempo che cercavo l’occasione, ma mi era sempre sembrato improbabile. Il fatto di non essere napoletano, inizialmente, rappresentava per me una sorta di limite, ma era una cosa assurda, perché la lingua non può essere un limite. Ma è la prima cosa contro cui i non-napoletani si scontrano. Inoltre, lavorando soprattutto a Milano, non è facile pensare a delle grosse produzioni su Eduardo. E quindi ho incominciato a riguardare i suoi testi da solo. E rileggendo Natale in casa Cupiello mi sono reso conto che, essendo anche un testo che nasce come modulare (è stato scritto prima il secondo atto, poi il primo e anni dopo il terzo), si prestava a essere attraversato anche in maniera meno tradizionale. Dopodiché leggendolo in maniera approfondita mi sono reso conto che si tratta di un dramma dalla solitudine, e quindi ho pensato che vedere un attore da solo in scena, posseduto da tutte queste solitudini, potesse regalare qualcosa al testo. Perché questa è una famiglia in cui solo apparentemente si dialoga, in realtà le persone non parlano fra loro, è come se si fosse creato un blocco di comunicazione, come se fossero una serie di monologhi.

sipario44FBInoltre questa modalità mi permetteva anche di essere più libero. Perché l’interpretazione di Eduardo e della sua compagnia è memorabile, e poi ci sono state anche magnifiche versioni televisive, che hanno fatto arrivare il testo nelle case di tutti. Però, nonostante sia un monumento, è ancora attualissimo. È universale, perché c’è la vita dentro. Trovare un modo per restituire lo scheletro dei rapporti (o dei non-rapporti) mi sembrava fosse la possibilità per riascoltare veramente queste parole.

È uno spettacolo di evocazione, di suoni, di voci. È più quello che non si vede di quello che si vede. Il pubblico deve immaginare moltissimo, fare un viaggio insieme a me. Anche questo mi piaceva molto: immaginarsi l’interlocutore che non vede, la controparte del dialogo, mettere insieme i pezzi insieme a me. Questo dava la possibilità di riscoprire il più possibile le tematiche fondamentali del testo. Molte di queste tematiche sono tematiche in cui il pubblico si deve specchiare per vedere come risuonano nella sua vita. La scena, spoglia e scarnificata, dà la possibilità in qualche modo di andare dritti dritti alle tematiche.

Ma hai mantenuto la struttura della commedia? Sì, sì, assolutamente. Non ho fatto nessuna riscrittura. Anzi, il testo è integrale. Mancano soltanto i personaggi dei vicini di casa, che sono comunque tutti reintegrati nel personaggio del portiere. Quindi le battute sono tutte conservate. Il testo è veramente integrale. Non aveva assolutamente senso andare a toccare il testo di Eduardo. L’operazione doveva funzionare restituendolo. Non è stato un lavoro d’attore sui personaggi, né una riscrittura, piuttosto un cercare di restituire il cuore del testo, attraversandolo in modo radicale, azzardato e spiazzante. Passo con poco da un personaggio all’altro e non faccio mai cambi scena o di costume, tutto è suggerito. In questo modo si perde forse la coralità, ma di riflesso si acquista qualcos’altro. E io per questo ho voluto rischiare.

Nel 2014 tornerai a lavorare con Serena Senigallia in un progetto sul Grande inquisitore, il racconto mai scritto di Ivan Karamazov. Come scegli i materiali su cui lavorare quando lavori da solo o come regista? E quando vieni chiama da altri registi? Quando è un progetto che parte da me funziona così: mi si accende una lampadina quando c’è qualcosa di cui sento un’urgenza, sento che mi appartiene, in cui mi riconosco. Parto sempre da una suggestione molto personale e questo può succedere sia se l’ho pensata interamente io, come in questo caso, sia che, magari qualcun altro me l’abbia suggerita, come era stato con Cuore di Cactus: la Shammah mi aveva fatto leggere quel testo e io mi sono subito riconosciuto in quegli argomenti; parla di un giornalista siciliano che, ai tempi delle stragi, lascia la Sicilia. È un testo che affronta temi di cui mi interessava parlare, come la Mafia in Sicilia, una parte di storia italiana degli ultimi quarant’anni, e anche l’abbandono di una terra che taglia le ali. Era un interrogazione sul perché lasciare la propria terra, sul perché si parte, dove si va, e questi sono tutti argomenti che io, essendo un Palermitano che si è trasferito a Milano, in qualche modo, mi interessavano molto ed era da un po’ che volevo fare uno spettacolo del genere. Quindi questa è stata un’occasione che mi si è proposta e che ho colto al volo. Quando invece vengo chiamato come attore dai registi, soprattutto se sono registi con cui lavoro da anni e con cui ho un rapporto profondo mi fido. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi maestri e in quei casi ti devi affidare. Sempre con la collaborazione nella costruzione del lavoro, eh, un attore non si deve mai esimere dal portare il più possibile anche il suo modo di essere e il suo punto di vista, che però si deve sposare con la visione con il regista.

Con Serena abbiamo un rapporto bellissimo che dura da tanto. Abbiamo fatto molte cose, in questi anni, nate in modo diverso. A volte partendo da un argomento, a volte dalla volontà di ritagliarci un momento per lavorare insieme. Il grande inquisitore adesso partirà come lettura, solamente per due sere al Ringhiera. È stata Serena a propormelo. Cercavamo da un po’ un progetto da far partire insieme e questa ci è sembrata una bella opportunità, un seme, un inizio, che non sappiamo dove ci porterà.

Visto che stiamo parlando di Serena Senigallia: L’ATIR è nata nel 1996, si è formata attorno a una classe diplomata alla Paolo Grassi che ha deciso di fondare una compagnia, e a distanza di diciassette anni esiste ancora e gestisce anche un teatro. Ogni corso che si diploma all’Accademia prova a realizzare esperienze come questa, ma voi siete uno dei pochi gruppi che ce l’ha fatta, secondo te perché? La prima cosa che mi viene da dire è che le cose, qualsiasi cosa che si realizza, le fanno le persone, quindi l’ATIR è quello che è perché si sono ritrovate insieme un gruppo di persone che chimicamente funzionano benissimo insieme. Nonostante le diversità che ci devono essere, perché se un gruppo va in un’unica direzione muore, invece così resta vivo. Sicuramente la voglia di fare la strada non da soli, ma insieme ad altre persone, di condividere, di fare squadra, ha fatto sì che le cose andassero in questo modo. Sicuramente poi con grande merito di Serena che, essendo in qualche modo il “capitano”, ha sempre “guidato” in maniera eccellente. Ma il gruppo è fatto da un insieme di persone che ci credono allo stesso modo e si danno al 100% per raggiungere questo obbiettivo insieme. I primi sette anni abbiamo lavorato molto intensamente e quella per me è stata un’incredibile palestra di formazione, di lavoro, di autorevolezza, di conoscenza e anche, come dire, l’opportunità di cercare un senso comune nel modo di fare teatro. Poi c’è l’indole di ciascuno. Io a un certo punto ho deciso di intraprendere un mio percorso personale perché onestamente la mia strada era questa, quindi è giusto che sia andata così. Questo poi non toglie il fatto che siamo sempre molto vicini, e infatti facciamo spesso cose insieme, pur facendo strade diverse. Io ho una strada più autonoma, ora. Da quando è arrivato il teatro io non ci sono quasi mai stato, ma è stato un ulteriore sviluppo importantissimo.

L’ATIR esiste perché dietro c’è sempre stata una grande motivazione. E poi scuramente la cosa peggiore che puoi fare quando finisci una scuola è metterti lì ad aspettare che qualcuno ti chiami o che ti arrivino addosso le cose. Invece è importante continuare la formazione che hai iniziato, è importante incontrarsi/scontrarsi sia con l’arte del teatro sia con tutto quello che ci sta intorno. La cosa fondamentale è che la scelta sia profonda e sincera. Una realtà di gruppo non può funzionare se non c’è sincerità e onestà nel volerci essere al 100%.

Oltre a Serena Senigallia hai collaborato con molti dei più importanti registi italiani, Ronconi, Rifici, Bruni, Vacis, Stein, Dall’Aglio, Pressburger e sei andato in scena nei principali teatri italiani, com’è la scena teatrale italiana? La scena teatrale è assolutamente viva. Mi sembra di percepire sempre un fermento di gruppi giovani, o anche entità singole, che provano a cercare il proprio linguaggio. C’è ovviamente il tentativo di fare cose che siano il più possibile nel tempo di oggi, nel presente. Questo è un periodo difficile perché la nostra Italia sta andando molto male, è affaticatissima e la cultura ne risente tanto. Sicuramente ci sono sempre meno soldi e meno possibilità, soprattutto per i più giovani, però credo dall’altro lato che questo momento tragico possa magari in qualche modo alimentare le motivazioni di chi fa teatro. In fondo io credo molto che chi ha la determinazione, la voglia e l’esigenza profonda di comunicare al mondo le proprie idee, in qualche modo, alla fine ci riesce. Magari con più fatica, ma ci riesce. Quindi quello che mi auguro è che il teatro italiano non rinunci mai in primis a questo. Io in questo momento mi reputo molto fortunato, lavoro al Piccolo che da un certo punto di vista è un’oasi felice, ma bisogna pensare sempre che la voglia di comunicare è qualcosa di indipendente e che va sempre più alimentata, anche nelle difficoltà.

Come speri che sia il teatro italiano fra venti anni? Ovviamente speriamo tutti che ci spossa essere più ascolto, investimento e rischio da parte delle istituzioni. Ma io penso sempre che il teatro, come ogni cosa, debba interrogarsi continuamente su cosa sta andando bene e cosa no. Per migliorarsi. Ci sono delle cose da aggiustare, però … per fortuna che c’è il teatro. Perché è un’arte che può dare qualcosa che nessun’altra arte può dare, e questo sarà così anche fra vent’anni: uno spettacolo, per servire a qualcosa, deve farti tornare a casa con una domanda, con qualcosa di cambiato (o che può cambiare) in te. Io spero che il teatro torni sempre di più a essere un confronto per poter leggere insieme (perché è importante la dimensione collettiva della fruizione) il nostro tempo e le nostre vite.

Emanuele Aldrovandi

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

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