11 dicembre 2013

HOUSING SOCIALE: INGANNO O OPPORTUNITÀ?


Il16 novembre scorso è stato inaugurato il quartiere di via Cenni, un complesso di 126 residenze, con elevata varietà di forme abitative, di funzioni e di servizi, frutto di un bel progetto, derivato da un concorso, molto innovativo dal punto di vista costruttivo ma soprattutto ricco di elementi e stimoli per lo sviluppo delle relazioni fra gli abitanti e col contesto: spazi comuni aperti, chiusi o semichiusi, con allusione alla casa a ringhiera, e altro.

05dagostini43FBBenché tutto realizzato con risorse private, sia pur su aree comunali concesse gratuitamente, più della metà delle abitazioni realizzate sono assimilabili a quelle tipiche della “edilizia residenziale pubblica”: alloggi a canone sociale o a canone moderato, alloggi protetti, case famiglia, residenze temporanee per giovani per l’attivazione di percorsi di autonomia e formazione. I restanti alloggi sono in affitto a canone convenzionato, per la maggior parte a riscatto.

L’inaugurazione è stata movimentata da una nutrita presenza di famiglie senza casa, organizzate da un sindacato di base, che ha colorato un ambiente molto bianco con numerose bandiere rosse e che ha dato comunque modo agli oratori di riconoscere che i manifestanti avevano ragione da vendere nel considerare non risolutiva questa forma d’intervento, ma che questo era appunto housing sociale, dunque altra cosa dall’edilizia popolare (Erp), la quale rimaneva e doveva rimanere compito esclusivamente pubblico.

Ora io penso, come ho già più volte scritto su ArcipelagoMilano, che questa contrapposizione manichea fra le forme d’intervento che con pertinacia degna di miglior causa viene continuamente ribadita dall’una e dall’altra parte (inclusa la manifestazione sindacale sulla casa del 23 novembre), non faccia bene a nessuno e anzi sia di forte ostacolo alla prospettiva di avviare a soluzione la questione abitativa, provando cioè a colmare l’enorme distanza che separa i grandi numeri del fabbisogno dalla capacità di rispondervi.

Se si continua a considerare l’edilizia pubblica come un mondo separato e non permeabile, i conti non torneranno mai: quanto denaro servirebbe per realizzare ex novo e in tempi ragionevoli anche solo una porzione delle decine di migliaia di “case popolari” che mancano da aggiungere al parco esistente? Cifre impensabili, soprattutto di questi tempi. È certamente doveroso continuare a rivendicare un robusto ritorno di finanziamenti pubblici per l’edilizia sociale, ma occorre sapere che i numeri non potranno essere che marginali rispetto al bisogno, e che quindi anche queste risorse, quando vi fossero, dovrebbero essere utilizzate in un quadro d’interventi e di politiche abitative che possano consentire di moltiplicarne gli effetti.

Ma c’è di più, chiudere l’Erp nel fortino non consente di vedere il vero problema, e cioè che una soluzione realistica e fattibile per la casa non può prescindere dalla capacità di sviluppare e accompagnare la mobilità abitativa fra un mercato e l’altro e all’interno di ciascuno, al fine di pervenire al pieno equo e razionale impiego dello stock esistente. Tornando ai numeri è infatti evidente che molte più risposte ai bisogni possono venire dal riuso e dal recupero dello sfitto (e dell’occupato abusivamente) nello stock pubblico che non dalla realizzazione di nuova Erp.

Ed è proprio allo sviluppo di queste politiche di mobilità virtuosa che può contribuire una collaborazione fra pubblico e privato che, invece di una contrapposizione ideologica, abbia di mira questa prospettiva, di pervenire cioè a un uso più pieno ed equo dello stock esistente, piegando a essa anche quel poco di nuovo in più che si riuscirà a realizzare.

E guardate che i numeri del vuoto, del sottoutilizzato, del male utilizzato sono clamorosi, incommensurabili con le piccole quantità di nuove abitazioni che realisticamente si potranno aggiungere. Per non dire che i pochi suoli liberi dell’area metropolitana dovrebbero essere utilizzati il meno possibile per nuove edificazioni, ancorché all’interno di aree di trasformazione. Se pensassimo, almeno nel breve periodo, di risolvere i problemi dell’Erp a canone sociale con i meccanismi del Pgt di Milano, che riservano a questa forma d’intervento solo il 5% delle quantità residenziali dei nuovi interventi, non faremmo certo un buon servizio al territorio e neppure credo agli operatori immobiliari che avrebbero i loro bei problemi a collocare il restante 95%!

Certo, per operare nella riqualificazione del settore pubblico, ci vuole il coraggio di mettere in discussione le situazioni di privilegio e di abusivismo consolidate e quelli che vengono erroneamente considerati diritti acquisiti (come restare nell’alloggio anche avendo superato il reddito da “decadenza”, e così via), ma è evidente che la cosa è tanto più difficile quanto più il mercato non è in grado di offrire un’alternativa accessibile.

Eppure, anche restando all’interno dello stock pubblico, è possibile fare qualcosa: come ha dimostrato l’intervento delle Quattro Corti di Stadera (che l’anno prossimo compie dieci anni!), dove si è realizzata, nell’ambito di un’operazione di recupero dello sfitto prevista dal Piano di Recupero e con la collaborazione del privato sociale, anche un’operazione di mobilità (da canone sociale a canone moderato), con risultati molto buoni anche in termini di rigenerazione urbana di una parte di città. Ma per replicare questi risultati (e non è un caso che non sia stato più fatto) è necessario rinunciare a quell’arroccamento dell’Erp nel proprio magnifico isolamento che ancora compare nell’appello sindacale per la manifestazione di oggi laddove si rivendica come dogma assoluto il “mantenimento della destinazione a canone sociale di tutti gli alloggi pubblici”.

Ancora più importante naturalmente sarebbe la mobilità dall’Erp verso il settore privato, oggi certo molto difficile per la distanza fra i due settori, ma che almeno andrebbe preparata per tempi migliori, anche perché qui le cifre del non utilizzato sono ancora più importanti, diverse decine di migliaia solo a Milano. Ma da quanti anni si parla di quell’Agenzia per l’affitto che potrebbe aiutarne il ritorno sul mercato rimettendo in relazione domanda e offerta e riattivando quel mercato del canone concordato che in realtà non è mai partito e che potrebbe fare da cuscinetto fra i poli estremi, del pubblico da una parte e del privato-libero dall’altra?

È più che mai ora di fatti concreti, ma soprattutto occorre una politica abitativa unitaria e coerente che sappia utilizzare al meglio, in una sussidiarietà fattiva, anche l’apporto del privato e del privato sociale. Superando quindi le sterili contrapposizioni.

Tornando per concludere all’intervento di via Cenni, mi piace quindi darne una lettura che lo riconosca, oltre che come modello di qualità abitativa e sociale, anche come effettivo contributo all’incremento dell’offerta di casa per le fasce molto deboli (più del 10% è a canone sociale) e deboli (più del 30% è a canone moderato), valorizzato ancor più dal loro inserimento in un contesto di massima integrazione rispetto alle altre tipologie di utenza e in un percorso, affidato al gestore sociale, di costruzione di una comunità coesa e solidale. Non è poco: ed è lì, già abitato e da vedere, e anche realizzato in tempi abbastanza rapidi, in rapporto a quelli usualmente impiegati nei casi di negoziazione fra pubblico e privato.

E in queste forme d’intervento, la quota per le fasce deboli e molto deboli potrebbe essere anche maggiore se su di esse potessero confluire quei nuovi finanziamenti pubblici che certamente vanno rivendicati con forza a partire dal livello nazionale (sottraendoli ad altre spese meno prioritarie, se non inutili). Un esempio di questa possibilità è l’intervento di via Voltri (ex bando “8 aree”), da poco avviato in zona Barona, dove, grazie alla presenza di un cofinanziamento regionale (un vecchio AQST “recuperato” nel bando comunale del 2008), un fondo immobiliare privato è messo in grado di realizzare, affidandoli poi a un “gestore sociale” esperto, ben 55 alloggi a canone sociale e 55 alloggi a canone moderato su una quantità complessiva di 330 abitazioni.

Insomma la prospettiva di una progressiva frammentazione gestionale dello stock pubblico, facendo crescere nuovi soggetti gestori più vicini all’utenza e più esperti di gestione sociale, mi parrebbe assai feconda di vantaggi, capace di influire positivamente anche sulla gestione Aler, indicando per essa prospettive di riorganizzazione, e capace in definitiva di ricondurre anche il modello nazionale del Fondo Investimenti per l’Abitare (FIA) di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) a una effettiva capacità di contribuire, in qualche misura, a coprire l’emergenza abitativa.

Sergio D’Agostini



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