4 dicembre 2013

PASOLINI ALLE PRIMARIE


I vertici PD insistono nel comunicare che l’8 dicembre si vota per il segretario del partito non per il candidato premier del centro sinistra. Si vuole evitare ogni fraintendimento. Giusto, la giornata è egualmente molto importante per il futuro politico, soprattutto perché sarebbe sorprendente se Matteo Renzi non vincesse e avrà enormi conseguenze se vincerà. Infatti, a quanto è dato capire dal suo programma e dai suoi discorsi, il futuro segretario rappresenterà una rottura con tutto il passato che risale al vecchio Pci, per tentare di costituire un partito liberale che mantenga il vecchio elettorato di sinistra, per aggiungervi nuovi consensi sufficienti a realizzare quella vocazione maggioritaria che era il progetto del suo sfortunato predecessore Walter Veltroni, il quale appunto sosteneva che il suo PD era un partito non di sinistra, ma invece riformista (termine di antica tradizione turatiana, ma alquanto svalutato da quanto è stato usato da berlusconiani, sia pur ex socialisti quali Cicchitto e Sacconi). Renzi senza dare definizioni, va oltre, perché il suo è un progetto “liberal”, se vogliamo usare il termine anglo-sassone, che ha sfumature progressiste, mentre il liberalismo italiano è sempre stato rigorosamente conservatore.

01galli42FBDunque chi voglia mantenere un partito simile a quello attuale, a mio avviso vagamente di tipo socialdemocratico, ma con una identità debole, dovrebbe votare per Cuperlo o per Civati, mentre chi sceglie il sindaco di Firenze accetta di prepararsi a navigare in mare aperto. Un mare difficile, perché il passato, dal Partito d’Azione in poi, sta a indicare che costruire un partito “liberal” che raccolga i voti di sinistra si è sempre risolto in un fallimento. “Critica liberale”, la coraggiosa rivista che ha tradotto la debole tradizione “liberal” italiana in una brillante e minoritaria contrapposizione al berlusconismo, ha ora pubblicato a puntate una storia della sinistra liberale, che dimostra quanto sia rimasta appunto minoritario il tentativo di contrastare la forte vocazione conservatrice del liberalismo italiano.

L’Italia è certamente molto cambiata in questi decenni; è certamente diventata più moderna, ma nel senso che, come tutte le democrazie rappresentative occidentali, ha trasformato in consumatori i sudditi dell’antico regime che le rivoluzioni borghesi avevano trasformato in cittadini. Si potrebbe parlare di un ciclo evolutivo (o involutivo) del capitalismo contemporaneo, in conseguenza del quale i cittadini hanno rappresentato un periodo di transizione tra i sudditi affamati dei re e i sudditi – consumatori delle multinazionali del capitalismo globalizzato.

A mio avviso, è in questo contesto che vanno collocati sia il recente passato, del quale Pasolini è stato il miglior analista, che il futuro, del quale Renzi si presenta come il proponente più ottimista. Come è noto, Pasolini parlava di una mutazione antropologica della società italiana tra il 1945 e il 1975 che aveva condotto a un peggioramento più deleterio dell’evoluzione del periodo fascista. A suo avviso, quel regime aveva inciso solo in superficie con la sua cultura nazional – imperiale, al di là della quale una semplice adesione formale non aveva modificato e impedito la sopravvivenza delle culture popolari quella contadina e quella proletaria, come invece era riuscita a fare, adornando di un mediocre benessere antiche povertà, la cultura del mediocre edonismo consumista. Pasolini fu criticato quasi rimpiangesse le passate miserrime condizioni di vita dei non privilegiati, il cui miglioramento aveva costituito uno dei meriti della modernità.

Credo che questa questione – la giusta analisi di Pasolini sulla base di quella che egli definiva antropologia marxiana e le critiche al suo preteso pessimismo passatista – possa essere meglio affrontata, oggi, sulla base di un libro che credo tra i più importanti pubblicati in Italia in questi decenni. Ho lavorato abbastanza nell’università per ritenere che la cultura accademica sia ben poco innovativa, ma è un raro prodotto in tale contesto il volume “La nascita dell’individualismo economico” (Casa Editrice Vicolo del Pavone, 2010), del professor Luigi Ferrari, al tempo stesso psicoterapeuta ed economista, che insegna psicologia economica del lavoro e psicologia delle condotte finanziarie all’Università di Milano Bicocca. Il volume, un migliaio di pagine con una immensa bibliografia, è una nuova visione di quella che Marx presentava come la logica del capitale (da cui il sostantivo capitalismo), fenomeno epocale per il quale Ferrari propone la definizione più esaustiva di individualismo economico, col miglioramento delle condizioni di vita (che Pasolini sottovalutava) e coi limiti dell’accantonamento di valori sociali e collettivi. Nella società italiana questa fenomenologia ha dato risultati peggiori che altrove in Occidente, per molte ragioni, la principale delle quali è che in Italia sulla cultura civica prevale quello che i sociologi anglosassoni definiscono familismo amorale.

Torniamo all’8 dicembre e a Matteo Renzi. Il partito al quale egli pensa ha qualche possibilità di successo se, in Italia, quel che resta di cultura civica verrà organizzata per battere il familismo amorale. D’Alema accusa Renzi di leggere poco. Non suggerisco le mille pagine di Ferrari, ma cito le sue conclusioni: “Qual è il futuro dell’individualismo? Tentar di vaticinare il futuro dell’individualismo e in generale delle forme della socialità, è impossibile. Come qualsiasi altra formazione storica, l’individualismo ha un potenziale di conservazione – sopravvivenza sociale inerziale anche dopo che i suoi presupposti storico – sociali fossero eventualmente tramontati. L’individualismo economico ha un surplus di potenzialità conservative inerziali” (pag. 810). È quanto ha reso sinora irrealizzate le ipotesi rivoluzionarie di Marx. Ma non è questione che interessi Renzi. Il PD che ha in mente è nell’ambito dell’individualismo economico. Ma potrà combatterne l’attuale degenerazione italiota? L’8 dicembre può anche essere la premessa di una risposta a questa domanda.

 

Giorgio Galli



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