4 dicembre 2013

sipario – INTERVISTA A CARMELO RIFICI


 

INTERVISTA A CARMELO RIFICI

Alla Sala Fontana c’è appena stata una retrospettiva su Proxima Res, la tua compagnia, fondata nel 2009. Una retrospettiva dopo soli quattro anni dimostra un grande successo e riconoscimento: a cosa è dovuto, secondo te? E qual è la poetica che accomuna gli spettacoli che avete realizzato finora? La compagnia si è costituita nel 2009 in modo formale, ma in realtà il nostro lavoro insieme è partito almeno dal 2005/2006, abbiamo iniziato con I giusti di Camus, e poi ci siamo compattati, facendo molta strada insieme. Il nostro gruppo esiste sempre “in formazione”, cioè con lo scopo di formarsi e auto-formarsi, quindi l’unica poetica che possiamo immaginare come legame fra noi è che ogni progetto nasca da un’esigenza di sapere qualcosa in più, qualcosa che prima non sapevamo. Sia dal punto di vista drammaturgico, sia – e di questo si occupa di più Alessio Maria Romano che è co-direttore insieme a me – per quanto riguarda il movimento, il corpo. Il nostro punto di coesione è proprio l’idea di non fermarci, continuando a formarci attraverso la collaborazione con autori e coreografi.

sipario42fbCome singolo regista tu lavori anche con teatri come il Piccolo di Milano o lo Stabile di Bolzano, qual è la differenza? Mah, io non trovo molta differenza. Molto probabilmente il lavoro che cerco di fare sulla drammaturgia, sul cercare di capire come si conduce un attore nelle maglie del testo, lo faccio al Piccolo come in Proxima Res. L’unica diversità è che il Piccolo e Bolzano ti danno la possibilità di confrontarti con un cast tecnico di grandissima qualità ed esperienza. Ad esempio per Giulio Cesare ho collaborato con A.J. Weissbard che è il light designer di Bob Wilson. Non potrei farlo in altre situazioni perché non avrei i soldi per pagarlo. Lavorare con un’artista del genere ti fa imparare moltissimo. Si fanno delle conquiste, ad esempio sull’artigianato della luce, della materia. In Proxima Res lavoro di più su testi nuovi, la ricerca è più drammaturgica e recitativa che non tecnica, e gli spettacoli sono tutti esperimenti. Mentre al Piccolo o a Bolzano non potrei, perché il pubblico giustamente vuole un allestimento finito e compiuto.

Secondo te perché i teatri stabili puntano così poco sulla nuova drammaturgia? Il problema grosso è il mercato. Il mercato è strutturato in modo che in questo momento è chiuso, morto e non sembra ci sia da parte di chi il mercato lo crea – il ministero – la volontà di mettere regole nuove. Cioè, io dovrei essere facilitato se voglio mettere in scena un testo contemporaneo. Dovrei essere facilitato dalle regole. Invece le regole sono strettissime, sono delle maglie chiuse a cui i teatri pubblici, se vogliono continuare a prendere i finanziamenti, si devono attenere. Perciò la colpa secondo me non è tanto il teatro pubblico. Ad esempio, Ronconi è una persona curiosissima, facilmente potrebbe mettere in scena autori sconosciuti. Anche io quest’anno ho fatto Shcimmelpfennig, chi lo ha mai fatto Shcimmelpfennig? Quindi in realtà il Piccolo le fa queste operazioni. Però si muove all’interno di maglie strettissime che mette il ministero. Ci vorrebbero nuove regole per agevolare la drammaturgia contemporanea. Ad esempio: se metto in scena un autore italiano vivente dovrei essere agevolato fiscalmente, se metto in scena Shakespeare, no. Invece non è così. Mi agevolano se metto in scena Shakespeare con un personaggio televisivo, e questo che senso ha?

A quarant’anni sei uno dei giovani registi che lavora di più in Italia, quindi sei la persona perfetta a cui chiedere: com’è la scena teatrale italiana? Mi hai già risposto per quanto riguarda il livello ministeriale. E a livello artistico? A livello artistico io la trovo molto interessante. Finalmente si sono rotte queste inutili categorie fra teatro off, sperimentale, ufficiale, eccetera, è tutto rotto. La cosa di buono che ha portato la crisi è stata la rottura dei margini. Adesso diciamo che registi, non so, come Latella, Malosti o Emma Dante si possono muovere con grande facilità nelle istituzioni, nonostante abbiano portato un loro modo nuovo – o almeno “personale” – di vedere il teatro. Questa cosa succede anche a me e succederà a tutti quelli della generazione che si affaccia adesso. Io e Serena Sinigallia, entrando così giovani al Piccolo, abbiamo dimostrato che dei giovani seri possono entrare nelle istituzioni e possono anche portarci delle novità. Quindi il panorama è molto vivo. Rispetto a qualche anno fa si vedono moltissime cose interessanti, per quanto riguarda la regia, ma più in generale in tutto il teatro. Senza soldi abbiamo tutti tirato fuori più creatività. Mentre il teatro degli anni ’80, che era pieno di soldi, era più statico. A parte alcune eccezioni eccellenti, da Carmelo Bene a Ronconi alla Raffaello Sanzio, e ti parlo di cose diversissime fra loro, eh, a parte qualche picco c’è stato un teatro di mezzo assolutamente dimenticabile.

Senti una forma di continuità/eredità con Ronconi? Eredità non la sento. Non riesco ad avere questa specie di presunzione, di vanità. Secondo me c’è gente più brava di me, quindi questo no. La continuità invece la sento molto. Da quando mi sono diplomato come attore, e sapevo già che c’era una parte di me che voleva fare il regista. E trovavo sempre delle analogie fra Visconti, Strehler, Ronconi, e quindi mi sono messo su quella specie di binario. A me è sempre piaciuto il teatro di regia, ecco. Mi sono sempre sentito affine. Anche quando dicono “è morto”, “è finito”, va beh, però a me piace, quindi finché campo con quello vuol dire che c’è qualcuno che lo va a vedere e a cui, come a me, piace. Mi piace un teatro che si occupa delle relazioni fra le persone attraverso il linguaggio e i linguaggi.

Come scegli i materiali su cui lavorare? Sia quando lavori sui materiali classici che su quelli contemporanei, cerchi di mantenere un filo conduttore oppure a volte è anche la casualità che ti porta a mettere in scena una cosa piuttosto che un’altra? Tutte e due le cose. Certo, c’è un filo conduttore. Se io guardo gli spettacoli che ho fatto ultimamente, dal Giulio Cesare a Materiali per Medea, Chi resta, Avevo un bel pallone rosso, Buio, tutti i testi che ho scelto ultimamente sono legati da un filo rosso. Però se uno si fissa solo sul filo rosso, su quello che vuole raccontare, magari perde qualcosa per strada. Se io so che sto scegliendo quel testo perché sotto sotto c’è un filo tematico che sto tendendo, poi quel testo mi deve per forza raccontare quello. Se io invece non mi fisso e mi lascio sorprendere – senza farmi schiavizzare dal tema – riesco davvero a lasciarmi guidare da quello che racconta. Il motivo per cui ho scelto un testo quindi io di solito lo cancello, so che c’è ma quando mi ci approccio non ci penso. Provo ad avvicinarmi alla pagina come se fosse stata quella pagina a scegliere me e non viceversa. Questo è difficile, però cerco di farlo per non essere condizionato dall’ultimo spettacolo che ho fatto. Altrimenti tendo a portare cose che ho già capito, che so già, o peggio ancora tento di non fare gli sbagli che ho fatto, ma i testi sono tutti differenti e si muovono attraverso loro proprie vocazioni. Per questo quando scelgo un testo non lo faccio subito ma lo lascio lì, lo abbandono e poi lo riprendo dopo un po’ di tempo.

Come vorresti che fosse il teatro italiano fra vent’anni? Vivo. E in ricerca.

Emanuele Aldrovandi

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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