27 novembre 2013

cinema – MISS VIOLENCE


 

MISS VIOLENCE

di Alexandros Avranas [Grecia, 2013, 99′, VM14]

con Themis Panou, Rena Pittaki, Eleni Roussinou

cinema_41La prima inquadratura del film è una porta bianca, chiusa, con una maniglia d’ottone; a ritroso poi la macchina da presa svela un interno borghese dove si festeggiano in famiglia gli undici anni di Angeliki, ragazzina delicata, bionda e vestita di bianco come l’altra giovanissima che è con lei. Una casa ben arredata, una famiglia dignitosa, ma non ricca, che ha preparato sandwich e torte per l’occasione e scatta polaroid di ricordo.

Mentre gli altri della famiglia le danno le spalle, con calma agghiacciante, Angeliki esce in balcone e si butta, dopo aver lasciato un sorriso e uno sguardo infinitamente consapevole, diretto verso l’obiettivo della macchina da presa.

Partono poi i titoli di testa, e la visione del film lascia un’intensità di sofferenza e inquietudine difficile da reggere, che persiste anche usciti dalla sala, tanto che non sono io stessa riuscita a descriverla e a fatica la metto su carta oggi nella Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.

Ci sono tante donne in famiglia, e per più della metà del film non si capisce chi sia figlia, madre o nipote, in una incertezza dei ruoli che provoca nello spettatore ancora più smarrimento della sensazione di sordida inquietudine malcelata della vita familiare. Tutto è raggelato, anche l’elaborazione del lutto drammatico di Angeliki; lutto vissuto in silenzio senza esplosioni di rabbia e di disperazione.

Crudeltà e sottomissione sono palpabili, trattenute nel cerchio di una continua obbedienza richiesta dal capofamiglia, nonno di Angeliki e padre di sua madre e di un’altra figlia adolescente, che mantiene la famiglia occupandosi di richiedere sussidi e facendo saltuariamente il contabile. Padre effettivo e affettivo di tutti, così appare all’inizio: a lui si chiede il permesso, e si concede obbedienza silenziosa, a lui è lasciato il compito di stabilire quando e chi si siede a tavola, quando si può andare in gita al mare, a lui sono spettano i colloqui con gli insegnanti, lui dà i tranquillanti alla bellissima e instabile figlia. Lui soprattutto dispone dei corpi e delle menti di moglie, figlie e nipoti femmine, abusandone e facendole abusare da altri, e infierendo psicologicamente sulla fragilità dell’unico nipote maschio.

Tutto è composto, dall’arredo della casa, ai gesti, all’espressione dei volti. Tutto è compresso, anche l’istinto di ribellione delle vittime, in uno scambio di sguardi e parole non pronunciate. Anche la violenza dell’orco è nascosta e lasciata a presentimenti – la macchina che si ferma in un vicolo cieco, lo zaino sui sedili posteriori – poco rivelata dal regista allo spettatore, se non in una dolorosa e ripetuta scena di sesso vissuta dalla e con la figlia quattordicenne. Anche il gesto finale, della dolente e silenziosa mater familiae, sempre in ombra, sempre stanca, è raccontato solo attraverso la fredda preparazione e l’esito, senza lacrime né parole di spiegazione, senza una messa in scena evidente di una vera catarsi, che mette a dura prova lo spettatore.

I personaggi dolorosamente veri e ben diretti, la fotografia senza luminosità e artificialità, la grande tenuta della regia ha portato a Avranas il Leone d’argento per la miglior regia e a Themis Panou, il patriarca orco, la Coppa Volpi per il miglior attore.

Adele H.

 

 

questa rubrica è a cura di Anonimi Milanesi

rubriche@arcipelagomilano.org



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