27 novembre 2013

musica – L’OTTAVA SINFONIA DI MAHLER


L’OTTAVA SINFONIA DI MAHLER

La settimana scorsa Milano è stata percorsa da due brividi che per fortuna non si sono fatti concorrenza l’un l’altro ma si sono felicemente integrati in una grande festa culturale in cui gran parte dei milanesi si è lasciata coinvolgere e che ha persino riempito gli alberghi. Sembra addirittura che venerdì sera le strade in uscita dalla città fossero meno affollate del solito! Parliamo di BookCity – su cui ovviamente non ci soffermiamo – con i suoi 673 eventi sparsi in ben 176 diversi luoghi della città, e l’esecuzione della ottava Sinfonia di Mahler, che è invece l’oggetto di questa nota.

musica_41Raccontare di questa Ottava vuol dire affrontare diversi temi: la Sinfonia, che per la sua diversità già da sola merita una grande quantità di riflessioni; la sua esecuzione e interpretazione, i cui problemi sembrano sconvolgere sempre le certezze degli estimatori, aumentandone o diminuendone ogni volta il numero; l’evento che – grazie alla sua rarità- finisce per diventare sempre mondano oltreché culturale; e infine il suo rapporto con lo spazio fisico, della sala e della città, a causa della quantità di persone coinvolte sul palcoscenico e in platea.

Cominciamo dalla Sinfonia. È un mistero, anche per i mahleriani più incalliti, per le sue incredibili anomalie. Innanzitutto non è una Sinfonia, non ne ha per nulla l’impianto formale ma, come dice Giacomo Manzoni, è piuttosto una grande Cantata o forse un Oratorio. I due testi scelti sono quanto di più antitetico e incompatibile si possa immaginare: per il primo tempo l’inno latino “Veni creator spiritus“, scritto dall’Arcivescovo di Magonza nel IX secolo per essere cantato “in gregoriano” durante la liturgia della Pentecoste e, per il secondo (lunghissimo e anche ultimo tempo della Sinfonia), i versi in tedesco che concludono il “Faust” di Goethe (l’angelo che spiega il motivo per il quale Faust è stato salvato, vale a dire la sua continua aspirazione all’infinito), sublime manifesto del grande romanticismo europeo.

Il legame fra i due testi è stato analizzato infinite volte ma nessuno è riuscito a darne una vera spiegazione; l’Autore stesso ne ha detto che l’Ottava Sinfonia è “talmente singolare e nella forma e nel contenuto che non è possibile scriverne”. Lui l’ha scritta nell’estate del 1906, in quegli anni inquieti in cui la vita culturale viennese era dominata da Klimt, Schiele, Kokoschka, Schönberg, Berg, Webern: si frequentavano tutti, si stimavano, si sostenevano l’un l’altro e si sentivano – giustamente – al centro del mondo e di una grande rivoluzione. Schönberg ebbe a definire le due parti dell’ottava Sinfonia “un’unica idea di inaudita lunghezza e poderosa ampiezza, concepita e dominata nello stesso momento” (come a dire che anche lui ne era sopraffatto). Webern e Berg girarono l’Europa intera per ascoltarne tutte le esecuzioni, tanto da far pensare che esistesse già allora una sorta di “Circolo di mahleriani itineranti” (chissà se ne era al corrente Attilia Giuliani quando, cent’anni dopo, creò il “Club degli abbadiani itineranti”!).

Mahler in particolare era un provinciale (veniva dalla Boemia), piccolo e bruttino, un ebreo costretto dall’antisemitismo burocratico imperiale a convertirsi al cattolicesimo senza crederci, era già un famosissimo direttore d’orchestra e al centro della vita musicale viennese, aveva sposato quattro anni prima la irrequieta, bellissima e ambitissima Alma Schindler, molto più giovane di lui, che gli darà molto filo da torcere (dovette rivolgersi a Freud, il povero Gustav, per placare la gelosia che lo stava consumando!); insomma, decifrare le ragioni profonde di quest’opera, anche attraverso la biografia dell’autore e il contesto in cui è nata, è tutt’altro che semplice.

Ciononostante il suo fascino dura da più di un secolo, e ogni sua esecuzione si presenta sempre come un evento straordinario. Così è stato per le due recite di giovedì e di sabato scorso alle quali hanno partecipato ottomila spettatori incantati da tutto: dalla musica, dagli esecutori (laVerdi rinforzata e i suoi due cori – sinfonico e di voci bianche, smaglianti più che mai con il loro amato direttore ritrovato dopo otto anni di assenza e alla vigilia di una attesa e auspicata nomina di direttore musicale della Scala – il magnifico coro spagnolo Orfeòn Donostiarra, e ancora tre soprano, due mezzosoprano, un tenore, un baritono e un basso provenienti da tutto il mondo), dalla grandiosa scena di 570 musicisti schierati sul palcoscenico, dominati dalle quattro trombe e tre tromboni “in bandina” e sostenuti dall’organo e da una inverosimile quantità di percussioni. Ma soprattutto ammaliati dalla sicurezza e dall’eleganza con cui Riccardo Chailly ha diretto questa inverosimile massa di persone.

La sola nota triste della festa è stata – come si usa dire oggi – la “location”. Il Centro Congressi della Fiera di Milano, il cosiddetto MiCo, già squallido per conto suo forse perché non ancora ultimato, ha ospitato il concerto in quella sala da quattromila posti che è quanto di meno accogliente ci si possa aspettare; ma la tragedia è la sua acustica che, nonostante gli accorgimenti usati per l’occasione, è assolutamente inidonea ad accogliere un concerto di musica classica, incompatibile come si sa con ogni genere di amplificazione.

Triste che a Milano non esista una sala adatta, o non la si trovi in occasioni come queste: l’ultima volta che sentimmo l’Ottava di Mahler – ventisette anni fa diretta, vedi un po’, sempre da Chailly – fu al Palatrussardi, e cioè anche allora in condizioni acustiche assolutamente improbabili! E pensare che nel 1910, per la prima assoluta, a Monaco fu costruita una sala apposta …

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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