20 novembre 2013

musica – LE SONATE DI BEETHOVEN


LE SONATE DI BEETHOVEN

Nella vita di un individuo non sono tante le occasioni per ascoltare dal vivo un’opera mastodontica come il ciclo completo delle Sonate di Beethoven; ricordiamo quello di Maurizio Pollini alla Scala, nel 1995-96, e i due di Schiff al Conservatorio, dieci anni fa per le Serate Musicali e quest’anno per la Società del Quartetto che è in pieno svolgimento e che l’altra sera è arrivato a quota 19 su 32. Sicuramente ve ne sono stati diversi altri, ma certamente non così tanti da farli considerare una normalità: l’integrale è sempre un evento, una immensa fatica per il pianista, un impagabile godimento per gli ascoltatori.

musica_40L’ultimo concerto dell’attuale ciclo è stato dedicato alle tre Sonate dell’opera 31 e alla famosissima opera 53, detta “Waldstein” o “Aurora”, le prime scritte fra la fine del 1801 e l’inizio del 1802, l’altra due anni dopo; l’accostamento di due atmosfere musicali tanto diverse a distanza di così breve tempo, ha obbligato gli ascoltatori che gremivano la sala (come sempre quando suona Schiff) a riflettere su uno dei passaggi più straordinari della storia della musica.

Tralasciamo per un momento di commentare l’interpretazione che ne propone Schiff – ne abbiamo più volte scritto in questa rubrica, anche recentemente, mettendo in evidenza le inconfutabili qualità ma anche gli evidenti limiti del pianista ungherese – e soffermiamoci invece sull’Autore di cui tutti amiamo l’opera e conosciamo la biografia ma sulla cui evoluzione – e sulla rivoluzione della quale è stato protagonista – non sempre abbiamo avuto modo di riflettere.

Nell’ottobre del 1802 Beethoven, trentaduenne, capisce di essere definitivamente condannato alla sordità e, sopraffatto dallo scoramento, nei giorni compresi fra il 6 e il 10 del mese, scrive quella lettera ai fratelli che va sotto il nome di “testamento di Heiligenstadt” (dal nome del sobborgo di Vienna in cui allora abitava, un angolo delizioso ai piedi della celebre “Wienerwald” oggi luogo di culto per i turisti di tutto il mondo) e subito dopo, nell’inverno che segue, la sua musica – ma dovremmo dire l’intera storia della musica – subisce un mutamento epocale. Il classicismo di Mozart e di Haydn (il primo era morto una decina di anni prima, il secondo aveva già settant’anni e sarebbe morto sette anni dopo) si concludeva, si sgretolava proprio con quelle tre Sonate dell’opera 31, con la seconda Sinfonia (opera 36) e con il terzo Concerto per pianoforte e orchestra (opera 37), tutti portati a termine nell’estate del 1802. Con la “Waldstein” – e con le contemporanee Sonata per violino e pianoforte “a Kreutzer” opera 47 e con la terza Sinfonia “Eroica” opera 55, tutte del 1803 – iniziava l’epoca romantica.

In quel 1803 Bellini compiva due anni, Donizetti e Schubert sei, Rossini undici, mentre Mendelssohn, Chopin, Schumann, Liszt, Verdi, Wagner sarebbero tutti nati nei dieci anni immediatamente successivi! Di quegli anni è anche lo sconvolgimento dell’Europa – e della felix Austria – a opera di Napoleone, l’eroe che aveva suscitato in Beethoven fiduciose speranze ma che sarà detestato con tutte le forze non appena si farà eleggere imperatore.

La nuova musica esplode nei pentagrammi beethoveniani come un’intima e dolorosa ribellione sia al male che incombe sulla sua vita sia alla delusione della vicenda politica; anche la commistione fra sentimenti privati e passione sociale è una delle cifre di questo uomo così diverso e introverso, certamente rivoluzionario, che già a trent’anni prende le distanze dalla solarità di Haydn e dalla leggerezza – nel senso calviniano, s’intende! – di Mozart anticipando e preparando lo struggimento di Schubert e la passionalità del secolo nuovo, della scuola di Lipsia e di Weimar, del melodramma italiano.

Alla luce di queste considerazioni il concerto di Schiff è stato interessantissimo; tuttavia, a dispetto della eleganza formale e della precisione assoluta che caratterizza tutte le sue esecuzioni, noi non abbiamo avvertito la coscienza di questo passaggio. Ci è sembrato che, come sempre, abbia prevalso la cultura del dettaglio. Ma forse ha ragione lui: le ragioni profonde della musica dobbiamo scoprirle noi che l’ascoltiamo, e il compito dell’interprete forse deve limitarsi (e non sarebbe poco) a farcela ascoltare senza prendere posizione, lasciando a noi la vera, reale, autonoma libertà di interpretazione.

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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