13 novembre 2013

cinema – DEXTER E BREAKING BAD


 

FINALI DI PARTITA ovvero della delusione che ti prende quando finisce una grande serie TV

L’altro giorno ho finito di vedere le ultime stagioni di “Dexter” e “Breaking Bad“. Non preoccupatevi, non farò spoiler, ma ammetto di esserne uscito col muso lungo. Ora, ai tempi di Lost, quando tutti i fan si lamentavano della povertà della chiusura architettata da Abrams & Co., io avevo l’impressione che, aldilà di alcune giuste rimostranze, i più stessero semplicemente scaricando la colpa del proprio lutto per la fine della serie sugli sceneggiatori. Un po’ come certi parenti fanno con i medici in ospedale quando sparisce un congiunto. Può essere che la stessa cosa stia accadendo a me? mi sono chiesto. Può darsi ma forse c’è di più: ragioniamoci sopra.

cinema_39La prendo un po’ alla lontana e comincio col considerare questo: mentre la serialità italiana si satura sempre più di preti investigatori, eroiche passionarie e industriali filantropi i protagonisti delle serie più importanti e riuscite degli ultimi quindici anni di televisione americana, sono tutti psicopatici.

Tra i criminali conclamati l’elenco dei sociopatici sarebbe interminabile: da Tony Soprano de “I Soprano“, a Vic Mackey di “The Shield“, da Dexter Morgan di “Dexter“, a Walter White di “Breaking Bad” a Nucky Thompson di “Boardwalk Empire” (ma non è che tra i “buoni” le cose vadano tanto meglio: Jack Bauer di “24“, Gregory House di “Dr. House” o Carrie Mathison di “Homeland” sono quasi altrettanto svitati).

Questi personaggi, spesso assassini incalliti, spesso divisi tra gli affetti familiari e la necessità di uccidere, spesso perseguitati dal rimorso e dal senso di colpa, potrebbero sembrare un ritratto di quel “sé lacerato” che è stato indicato da alcuni come un segno caratteristico della civiltà post industriale americana… e sarà pure così. Io però li vedo più come i veri eredi della tradizione shakespeariana. Macbeth, Re Lear, Amleto, quella gente lì.

In particolare il montare del rimorso per i propri crimini e l’implacabile condanna finale che stanno alla base del Macbeth (ma che in generale segna anche il percorso del peccato di hybris tipico della tragedia greca) sembra avere fornito agli sceneggiatori di questi serial un modello preciso su cui costruire l’arco di sviluppo della varie stagioni. Guardate le prime stagioni di “The Shield“, “Dexter” o “Breaking Bad“… qui la serie vive una sorta di giovinezza, dove tutto è permesso: si commettono crimini orrendi e la si fa franca, ci si ride persino sopra. Poi di stagione in stagione la serie diventa adulta, i personaggi devono iniziare a prendersi le loro responsabilità (non a caso Dexter si sposa nella terza stagione e diventa padre nella quarta) ma da lontano, si inizia già a vedere la tragedia che incombe, proprio come la vecchiaia della serie che porta inevitabilmente alla catarsi finale dove il nostro eroe incontra il proprio fato.

E siamo arrivati al punto. È questo che mi incupisce? Preferirei che il mio eroe la facesse franca e cavalcasse verso il tramonto o, nel caso di Tony Soprano, riuscisse a mangiare in pace quel maledetto anello di cipolla fritta? O mi infastidisce che l’etica puritana finalmente pretenda il suo obolo in maniera così ipocrita? Perché ammettiamolo, per sei stagioni abbiamo goduto come ricci nel vedere Vic Mackey infrangere tutte le regole del codice deontologico di un poliziotto: mentire, razziare, uccidere i colleghi. E adesso vogliamo fare finta che non ci sia stato niente tra noi? Andiamo!

E poi c’è un problema di tipo squisitamente tecnico. Il tono di molti di questi serial, pensate solo a “Breaking Bad“, è un mix perfettamente bilanciato di comico e tragico, di grottesco e di drammatico. Possono accadere le cose più turpi ma c’è un grande distacco ironico nel modo in cui vengono raccontate. Una vasca piena di acido con un corpo semi-smembrato corrode un pavimento e precipita col suo carico immondo al piano inferiore. Gli esiti sono raccapriccianti ma la reazione dello stupito e strafatto Jessie Pinkman ci strappa una risata. E non è un particolare da poco: questo elemento grottesco fa parte integrante del “franchise” della serie, vale a dire l’insieme di quelle caratteristiche che la rendono immediatamente riconoscibile e che ti aspetti di trovare quando accendi la TV, come ti aspetti di trovare la lattuga nel Big Mac.

Ecco, quello che mi ha disturbato di molte “ultime stagioni” recenti è che il franchise ne esca stravolto.

Ok, volete virare verso la tragedia ma non potete snaturare tutto e fare diventare la serie qualcosa di intrinsecamente “altro” rispetto alla serie che amavo. E vogliamo parlare dei personaggi? Di colpo perdono tutte le qualità che gli riconoscevamo e di cui ci eravamo innamorati … ma io che me ne faccio per esempio nella parte finale di “Breaking Bad” di un Jesse Pinkman che continua a piagnucolare o di un Hank che è diventato il clone dell’ossessionato Kavanaugh in “The Shield”? Va bene, sarà pure il termine del loro arco narrativo, ma io dovrei passare settimane con questa gente che non (ri)conosco e che per di più non mi è nemmeno simpatica? Lo faccio, va bene, ma non chiedetemi pure di essere soddisfatto. E vi avverto, provo già un intenso desiderio di rituffarmi in una bella fiction di Rai 1. Almeno lì gli eroi sono sempre senza macchia e senza paura e il peggio che gli possa capitare a fine puntata è di sporcarsi di sugo la camicia mentre la moglie, con buona pace della Boldrini, mette in tavola un bel piattone di pasta fumante.

Tom Doniphon

 

 

questa rubrica è a cura di Anonimi Milanesi

rubriche@arcipelagomilano.org



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