13 novembre 2013

sipario – INTERVISTA A MASSIMO NAVONE


 

INTERVISTA A MASSIMO NAVONE

 

sipario_39Massimo Navone, dal 15 al 24 novembre sarà in scena al Teatro Nuovo di Milano Cast away con Enrico Bertolino, di cui curi la regia. Hai già diretto, sempre con Bertolino Lampi accecanti di ovvietà, come è nato questo spettacolo? La cosa interessante del lavoro con Enrico Bertolino è che si tratta di un lavoro che procede di pari passo con l’osservazione dell’attualità e dei cambiamenti (o dei non cambiamenti) che si verificano sia a livello socio-politico sia a livello dei riflessi sui costumi. Perciò collaborare con lui significa avere le antenne dritte e accese, per cogliere tutto ciò che c’è di paradossale, di strano e anche di extra-reale; non tanto perché si parla di cose irreali, ma perché si incontrano fatti che pur essendo veri sembrano venire da un’altra dimensione. Da lì era nato il tema e il titolo dello spettacolo precedente. Stavolta siamo partiti dalla suggestione del naufragio, come se il momento attuale suggerisse un doppio sentimento: da una parte una sorta di spaesamento generale che si concretizza in sensazione di sfiducia e mancanza di orientamento, dall’altra la sensazione ricorrente dell’isolamento. Lo spettacolo inizia con una tempesta immaginaria nella quale Bertolino viene sballottato da un mare di fogli di giornali, con le notizie che arrivano e lo sommergono, per poi lasciarlo su un’isola di detriti plastici aggregati, di quelle che purtroppo ci sono davvero. Su quest’isola trova un pianista da crociera naufragato molto tempo prima, che è riuscito a salvare la sua pianola e si è adattato a sopravvivere su quest’isola. Da qui comincia un confronto fra i due sull’Italia di oggi e l’Italia di qualche anno fa e questo dà anche lo spunto per l’inserimento di commenti, gag e battute sull’attualità, che sono il pane artistico di Bertolino.

Però a differenza di sketch o brevi pezzi televisivi, questa attitudine è inserita in una struttura drammaturgica solida che porta avanti lo spettacolo dall’inizio alla fine. Sì, come stile è una stand up comedy all’americana, un monologo interiore che si dipana per analogie e paradossi.

Oltre che con Enrico Bertolino hai lavorato con Gene Gnocchi e Enzo Iacchetti. Ma hai messo in scena anche tanti testi di Shakespeare (ultimo l’Otello visto al TF Menotti) e all’inizio della tua carriera hai diretto pièce di autori come Gombrowicz, Jarry o Erba. Qual è la differenza fra lavorare con un comico e lavorare partendo da una drammaturgia?

Da un certo punto di vista sono due cose completamente diverse, bisogna usare strumenti completamente differenti. Lavorare con i comici vuol dire entrare in una sintonia immaginativa, ritmica e personale, cioè mettersi al servizio di una personalità e capire come aiutarlo ad essere in scena al massimo del proprio agio e sostenerlo in un lavoro che poi è fortemente basato sulla scrittura dei pezzi. La componente attorale è più che altro ritmica e il lavoro del regista consiste soprattutto nel costruire una scena che sia evocativa ma che non diventi ingombrante e vincolante per l’artista che, agendo in assolo, ha bisogno della libertà necessaria per poter creare un legame col pubblico. Quando invece ci si rapporta con una drammaturgia costruita che necessita di una creazione di tipo situazionale, lì allora entriamo nella regia vera e propria: creare dei parametri preliminari e organizzare tutto il complesso sistema di segnali che va dalla costruzione del personaggio, alla relazione fra i personaggi, con tutto ciò che questo comporta in relazione con lo spazio scenico… Alla fine però sempre di teatro si tratta, e si cerca di trovare la strada – attraverso il materiale che si usa – per accendere nel pubblico l’attività immaginativa che lo agganci a ciò che accade sulla scena. Quindi alla fine il nocciolo è lo stesso e l’obbiettivo finale anche: stimolare lo spettatore a produrre domande e immagini.

Se parliamo di pubblico comunque i comici hanno una risonanza infinitamente maggiore rispetto ad esempio agli autori contemporanei. Questo secondo te è perché raccontano meglio la realtà? O perché la raccontano con un codice che è più facile da capire? Io credo sia anche una cosa di DNA culturale. Se ci fai caso la maggior parte degli attori che hanno conquistato una fama in Italia sono tutti affabulatori solisti, a partire da Dario Fo per arrivare a Celestini e Paolini. Non sono neanche poi dei comici, ma appunto degli affabulatori. Paolo Rossi, lo stesso Benigni. Certo, c’è una componente di carattere economico: il monologo è una forma di produzione più veloce e meno costosa. Ma secondo me la gente in generale è più propensa, perché se un personaggio ti piace è più facile – ma non nel senso sminuente del termine – andare lì a sentire “cosa ci racconta questa volta Bertolino”, piuttosto che dire “vado a vedere un autore, ma chi sarà questo autore? Chi lo mette in scena? Chi sono gli attori?” Cioè, sono già quattro o cinque domande che richiedono un impegno molto più pesante da sostenere. Sembra strano ma nel bombardamento d’informazioni che si subisce anche questo influisce molto.

Sì, non ci avevo mai pensato in questi termini. La prossima domanda è: cos’è per te, oggi, “ricerca”? Io credo che oggi come oggi ha senso solo se la riferisci al pubblico. La ricerca vera che si può fare oggi è nel capire come arrivare al pubblico con dei contenuti che siano all’altezza delle potenzialità del teatro, che siano effettivamente delle occasioni di crescita. Io sono assolutamente d’accordo con Sinisterra che dice che a differenza delle scienze, all’interno delle quali il nuovo supera il vecchio (ad esempio quando arriva una nuova tecnologia quella precedente viene abbandonata), nell’arte è esattamente l’opposto: l’arte riscopre continuamente l’antico e re-inventa le forme della tradizione per declinarle in una maniera diversa. Perché l’essenza universale dell’uomo è primitiva, eterna e imperitura, quindi una nuova forma non può cancellare quelle precedenti.

Da più di trent’anni (non perché sei vecchio ma perché hai iniziato da molto giovane) sei insegnante oltre che regista, a adesso sei anche per la seconda volta direttore della Paolo Grassi, qual è l’importanza dello studio accademico secondo te? Lo studio accademico è fondamentale quando viene inteso come non-accademico, cioè non come trasferimento di un metodo univoco o di una visione estetica da tramandare, ma come un luogo di incontro di esperienze e generazioni differenti. Quella è la grande potenzialità delle accademie: sono luoghi in cui persone che hanno fatto esperienza in tempi diversi incontrano altri artisti che si stanno affacciano adesso. È il luogo dove si crea un contatto effettivo fra le generazioni, perché poi purtroppo nel mondo della professione c’è una separazione assolutamente devastante e mortale, dovuta anche proprio al fatto che le generazioni precedenti difendono il territorio e quindi i giovani che arrivano vengono sempre confinati in recinti da cui si cerca di non farli uscire. Anche certe vetrine o rassegne per i giovani, da un lato hanno valore perché comunque danno la possibilità di vedere i nuovi talenti, però – salvo rare eccezioni – diventano poi quasi subito dei recinti in cui tenerli chiusi, guardandosi bene dall’accoglierli nei canali istituzionali dove effettivamente girano più risorse. L’accademia poi è fondamentale anche per conoscere i propri coetanei, i proprio futuri colleghi. Questo è importantissimo, perché non si può fare gli artisti da soli.

Sono cambiati gli aspiranti attori/registi negli ultimi trenta anni? Un po’ sì. Il contesto è molto cambiato. Quando ho iniziato io c’è stato un concorso per nuovi progetti di giovani registi e i concorrenti erano quindici. Ne sono stati scelti cinque, fra cui il mio, ci hanno dato un piccolo budget e poi a vedere gli spettacoli c’erano tutti i critici più importanti. Perché c’era questa rassegna qui ed era l’unica. Adesso ce ne sono quattro al giorno con cento aspiranti ciascuna. Le scuole di teatro erano due, la nostra e l’Accademia di Roma. E stava iniziando quella di Genova.Un altro mondo. Adesso ci sono corsi di teatri ovunque. Che secondo me è un valore positivo, eh. C’è più diffusione. Però questo ha delle ripercussioni e fa cambiare la fisionomia degli aspiranti professionisti. Da un lato c’è meno preparazione culturale, perché il bombardamento di informazioni che lo stare in rete comporta ti assorbe moltissimo tempo. Quindi magari sei formato su un sacco di cose però il tempo per approfondirne qualcuna ti viene sottratto. Adesso è difficile che capiti qualcuno che sappia tutto di qualcosa, mentre noi avevamo le nostre forme di ossessione culturale. Forse adesso c’è più disponibilità, più apertura. Noi magari eravamo più presuntuosi, adesso c’è più disponibilità. Ma anche più insicurezza.

Come vorresti che fosse la scena teatrale milanese fra venti anni? Se avrò ancora qualche neurone che funziona mi piacerebbe vedere una realtà più mobile, meno superficialmente concorrenziale e addetta alla difesa del recinto. Vorrei ci fosse una dimensione artistica un po’ meno ossessionata dalla sopravvivenza e un pochino più orientata allo scambio e alla circolazione delle energie. Però perché questo accada c’è bisogno sì che ci sia una mentalità diversa, ma anche che ci sia un disegno politico che la sostenga.

Emanuele Aldrovandi

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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