6 novembre 2013

MILANO, LA CAPITALE “IMMORALE” RASSEGNATA?


“La città più importante d’Italia, da tutti i punti di vista, è Milano, metropoli europea per definizione. Se dovessimo essere ragionevoli, Milano dovrebbe essere la capitale del vostro paese”. Così scrisse Fernand Braudel, ma si era nel 1980 e l’entusiasmo dello storico francese si poteva capire: Milano era la “locomotiva” che trascinava l’Italia in Europa, “Milano che banche che cambi” come cantava Lucio Dalla (che aggiungeva, generoso: “Milano tre milioni/ respiro di un polmone solo/ che come un uccello/ gli sparano/ ma anche riprende il volo”), era l’angolo forte del triangolo industriale, Milano era la “capitale morale”: “morale” in ragione del suo senso etico del lavoro e del profitto, intensamente avvinti, anche se uno andava da una parte e il secondo da un’altra, “morale” anche nel significato del virtuale, di un primato meritato ma negato, alla maniera di tante “vittorie morali” dei nostri cronisti sportivi ma anche nel modo nobile di tante popolari risposte alla violenza, al terrore, all’ingiustizia.

“Capitale morale” è attribuito a un napoletano, Ruggiero Bonghi, direttore della Perseveranza, un giornalista, dunque, che avrebbe usato quella memorabile espressione nel 1881, nell’anno dell’Esposizione industriale nazionale, quella che avrebbe dovuto esaltare le qualità manifatturiere del capoluogo lombardo, che viveva intensamente la fine del secolo dell’Unità e correva convinto verso il decennio del boom giolittiano.

Bisognerà attendere un secolo per leggere una definizione altrettanto fortunata: e fu Tangentopoli, altra invenzione di un giornalista (qui, a proposito della “firma” le opinioni non sono concordi e il dibattito di tanto in tanto si rinnova nella sala stampa del Palazzo di Giustizia), tangentopoli punto di svolta nelle vicende della Repubblica, prova provata della corruzione della politica, duro colpo a tante benevole certezze, a tante propulsive sicurezze.

Gli anni sono passati, ci avviciniamo all’Esposizione universale, 2015, e il primo scrupolo annunciato è stato quello di tenere fuori dagli appalti la ‘ndrangheta. Ci riusciranno? Però anche in questi buoni propositi è il segno del destino amaro della “capitale morale”. In fondo – stiamo al dopoguerra – all’inizio erano gli innocui banditi di via Osoppo, poi sono arrivati i sanguinari Turatello e Petrovic. Con la ‘ndrangheta si è compiuto il salto: la storia è vecchia, storia di un insediamento lento, capillare, inarrestabile, il cambiamento è più recente, la criminalità organizzata ha maturato poco alla volta la consapevolezza che è il potere economico e finanziario quello che conta e qualche cosa di utile ha imparato da Tangentopoli, ad esempio anche la possibilità di avvalersi del contributo di qualche amministratore pubblico.

L’interrogativo è chiaro: “tangentopoli continua”, la ‘ndrangheta infiltrata e gli ultimi morti ammazzati in una strada di Quarto Oggiaro hanno cancellato la “capitale morale”?

“Capitale” Milano lo fu con Napoleone e con gli austriaci, poi si vide ridimensionata nel rango da un aggettivo, per quanto ragguardevole, rinunciando non solo all’ambizioso titolo (chiusa inevitabilmente la partita dai Savoia che da Torino scesero prima a Firenze e quindi, ultimata o quasi la pratica unitaria, a Roma), ma anche a qualcosa la cui assenza avrebbe alimentato annose polemiche, rivendicazioni, riflessioni storiche e culturali, persino slogan elettorali. Malgrado Mussolini, Craxi e Berlusconi (singolare triade, all’ultimo capo della quale si potrebbe connettere anche Bossi), Milano non fu mai “politica”, per una scelta antica e a questo proposito non bastano poche righe ma andrebbe letto e riletto il bel saggio (assai ponderoso) di Giovanna Rosa, Edizioni Comunità, “Il mito della capitale morale“, fitto di tante citazioni, tra saggi, romanzi, interventi giornalistici, dell’epoca, tra ultimi decenni dell’Ottocento e i momenti decisivi del Novecento.

Risalendo alle stagioni d’oro dell’industrializzazione milanese (gli anni ottanta dell’Esposizione nazionale), Giovanna Rosa annota che il terreno competitivo in cui le forze economiche si fronteggiavano per raggiungere ricchezza e predominio era anche e soprattutto sede elettiva per armonizzare slancio individuale e destini collettivi, che la società civile, contrapposta alla disgregazione inefficiente del mondo politico, veniva idealizzata, che l’elemento di conflittualità che le era strutturalmente proprio veniva vanificato nell’ideale di un ordine superiore. Le radici del mito affondano dunque nella volontà ambrosiana di contrapporsi alla capitale politica in nome dei puri valori morali, svelando la contraddizione di una città che si autocandidava alla direzione del paese rifiutandone però la dimensione nazionale e politica. Era una rinuncia, in nome di un presunto primato ideale, culturale. Ricchi e puri.

Si dovrebbe leggere oltre, perché la pubblicistica d’altro peso è densa, da Paolo Valera (con “Milano sconosciuta“: “Nessuno immaginerebbe di trovare in questa capitale morale, viottoli ove non scende mai raggio di sole, vicoli ignorati persino dal ‘cappellone’ (sorvegliante), crocicchi ne’ quali si respira un’aura graveolente di miasmi micidiali, angiporti dove si è costretti a rimboccare i calzoni, tanto sono coperti di immondizie e di escrementi solidi e liquidi”) a Ludovico Coiro (con “Abissi plebei“, quasi una anticipazione di “The People of the Abyss” del ben più popolare Jack London … in Coiro è frequente il confronto tra Milano e le “vere” capitali europee, come Parigi e Londra) ed è una pubblicistica che scopre una dura “questione sociale” (Bava Beccaris arriverà neppure due decenni dopo). Un popolo di orfani, ladri, prostitute (più di quattrocento quelle dichiarate nell’anno dell’Esposizione), miserabili, affamati, disoccupati, diseredati di ogni genere svelavano l’altro volto, intimo, profondo, blasfemo, oscurato, della “capitale morale” e soprattutto smascheravano il mito consolatorio della una classe dominante, mai diventata dirigente e “nazionale”.

Il capitolo, oggi, mi sembrerebbe “chiusissimo”. Se non che in un paese in crisi (in inevitabile rivolgimento) le partite si potrebbero sempre riaprire, non per ripristinare una rivalità, confidando in un’improbabile superiorità morale, in nome magari di una supposta società civile come ai tempi dei girotondi, finendo nella banalità dell’antipolitica, ma per ritrovare finalmente la politica, diritto ed esercizio collettivo (non sarebbe comunque facile, ma si potrebbe cominciare riscoprendo qualche vena culturale e critica nelle sue tante “fabbriche” di libri, giornali, televisioni). Forse una luce potremmo riaccenderla.

 

Oreste Pivetta

 

 



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