30 ottobre 2013

NELLA SALA DELLE CARIATIDI SI “CAPISCE” RODIN?


Strano titolo della mostra “Rodin. Il marmo, la vita” che non sembra contenere lo sviluppo di un tema che in realtà non c’è. Come è spiegato nel comunicato stampa, le opere di questo straordinario artista sono presentate allineate in tre sezioni a partire dalla produzione giovanile, per proseguire lungo la maturità artistica e concludere con il trionfo dell’incompiuto. La mostra prodotta dal Comune di Milano, Cultura, Palazzo Reale, Museo Rodin di Parigi, Civita, Electa, come spesso accade, lascia stupiti per la qualità delle opere esposte meno per lo sforzo dei curatori che avrebbero potuto documentare le loro ricerche allo stato di avanzamento in cui si trovano.

06piva37FBDa una mostra come questa ci saremmo aspettati d’essere aiutati a capire in profondità gli aspetti più stupefacenti di questo artista che, a cavallo di due secoli, era avanzato potente coltivando amicizie, successo, sviluppando temi del suo tempo e una tecnica sempre in evoluzione. Gli interessi per la materia, in questo caso sono esposte solo opere di marmo e qualche bozzetto, sono evidenti e il marmo lo lavora con risultati ogni volta differenti. Non a caso l’allestimento, che si presenta curato e semplice, svolge i tre momenti della rassegna senza variazioni di sorta che in qualche modo forse, avrebbero potuto segnalare quei cambiamenti inevitabili della vita artistica e della materia.

Una serie di tralicci di tubi Innocenti colorati di un rosso e disposti parallelamente gli uni agli altri compongono un sistema espositivo che guida il pubblico dall’inizio alla fine alla scoperta di quello che c’è. Le opere, orientate verso il pubblico, si susseguono appoggiate su tavole di legno quasi tutte alla medesima quota. Alcuni teli di garza bianca pendono dal traverso superiore dei tralicci e diffondono una luce uniforme qua e la rinforzata da faretti con luce che si concentra su alcune sculture.

Tutto andrebbe bene se non ci fossimo accorti come la materia, illuminata da questo apparato, fosse privata delle sue ombre naturali, quelle che appartengono, diverse, a ogni opera. Sono infatti le ombre, con le famose “vibratilità chiaroscurali” a creare l’opera e a renderla unica. Nel caso in cui intervengono le luci dei faretti posizionati in modo contrapposto e simmetrico si cancellano le ombre che si mettono a danzare smorzate, senza regole, sulle superfici distruggendo il lavoro dell’artista.

Seduto di fronte al famoso “bacio” notavo come il fenomeno non mi risultasse nuovo e che già in un’altra occasione a proposito di Canova si fosse discusso a lungo sull’importanza di creare le ombre seguendo ragionamenti compositivi scultorei, studiando a fondo le ombre con accorgimenti che richiedono apporti degli studiosi delle opere e illuminotecnici la cui pazienza non sarà mai sufficiente per ottenere quei risultati che fanno di un pezzo di marmo un’opera unica. Il “bacio” si riflette nella specchiera che, per chi entra si trova alle spalle e per chi esce dona l’ultima immagine riflessa. Un bel “coup de théâtre”.

Il percorso tra gli espositori paralleli tra loro priva il tutto tondo di gran parte delle sue attrattive. Solo nelle testate degli espositori lo spazio si libera e lascia che il tutto tondo si esprima nella sua vera dimensione.

Ho sempre sostenuto che quello dell’esporre una opera d’arte è un mestiere molto difficile e che oltre alla vista è indispensabile un amore insaziabile per la verità dell’arte che ci riserva di continuo sorprese ed emozioni.

Sostengo ancora che il risultato di un progetto dipende da una infinità di componenti e da una responsabilità congiunta e condivisa. I gruppi di lavoro si costruiscono nel tempo lavorando sulle affinità e sulle conoscenze. Gli errori che la maggior parte delle persone non valuta rallentano la conoscenza delle cose che dovremmo sapere e che invece ci sfuggono contribuendo alla crescita della superficialità.

Vorrei concludere ricordando un episodio curioso citato da Raffaello Giolli in un suo vecchio scritto in cui riporta come Rodin desiderasse avere un ritratto di Troubezkoy. I due artisti si erano conosciuti a Parigi nel 1906 e il ritratto fu realizzato in quegli anni. In segno di stima e apprezzamento Rodin aveva donato a Troubezkoy una delle sue opere. Il ritratto esiste ancora e il gesso è custodito nel museo di Pallanza.

 

Antonio Piva

 



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