23 ottobre 2013

GRANDE DISTRIBUZIONE: MAI IN BICICLETTA


Nella settimana europea della mobilità sostenibile i giornali hanno parlato soprattutto di ciclabilità, perché pare questa la chiave per garantire diritto a spostarsi senza degrado dell’ambiente. La bici, come spesso si dà per contato, però non serve solo per andare da casa al lavoro senza affumicare il prossimo, ma anche per tanti altri aspetti della vita. E a proposito della vita che è bella perché è varia, si parla di piste ciclabili, di bike sharing, di educazione stradale, ma troppo poco della sosta dei veicoli. Un tema a sua volta molto articolato, di cui mi limito qui a sottolineare un aspetto a mio parere assai significativo.

03bottini36FBIl diavolo sta nei particolari, e dall’ultima settimana europea della mobilità sostenibile a quanto pare è mancato un attore che invece incrociamo di continuo nella nostra mobilità quotidiana: la grande distribuzione commerciale. Ovvero uno dei motori principali dell’universo auto-oriented, discepolo della profezia di Henry Ford: la città moderna ha un sacco di problemi, perché non ne facciamo a meno? Così la distribuzione commerciale produce negli anni ’50 il capolavoro assoluto di Victor Gruen: lo shopping mall introverso a pareti cieche assediato da un esercito di piazzole di sosta. Quel mare di parcheggi ha però l’involontario effetto di metterne in luce la natura violentemente anti-umana, oltre che anti-urbana, di spazio pensato proprio e solo per il mezzo meccanico, assai più analogo al distributore di benzina che alla piazza urbana, come osservava intelligentemente il critico d’architettura Richard Longstreth.

Che ci fa un ciclista, sullo spiazzo d’asfalto del distributore di benzina? L’intruso sgradito, ecco cosa ci fa, e in quanto tale va in ogni modo respinto e scoraggiato. Pare chiaramente questa la politica delle grandi catene di distribuzione, come sa benissimo chiunque si sia provato a frequentare supermercati, ipermercati, centri commerciali avvicinandosi in sella a una bici. L’esperienza più comune possiamo articolarla in tre fasi: avvicinamento, contatto, interfaccia. L’avvicinamento è quel percorso, di chiara impronta suburbano-autostradale anche quando in ambiente urbano, che obbliga il ciclista a convivere con mezzi a quattro ruote per parecchie centinaia di metri, su controviali spesso anche privi di marciapiedi, e comunque in condizioni di estremo disagio se non di rischio.

Il contatto è la fase finale del percorso, quando il ciclista convive sia con le auto, sia con gli ex automobilisti in mutazione verso lo stato pedonale (o viceversa), e le relative infrastrutture, ovvero piazzali pensati esclusivamente per la manovra di cose a quattro ruote, come appunto le auto o i carrelli. Lui, il ciclista, deve arrangiarsi come può, saltellando su e giù dai dislivelli dei cosiddetti marciapiedi, o approfittando dei rarissimi scivoli, spesso imboccando contromano corsie di accesso ai livelli interrrati o ai silos. E non è finita.

Non è finita, perché raggiunto l’agognato ingresso il ciclista non può far altro che confermare tutte le impressioni precedenti: lo scatolone commerciale le auto non le subisce, ma le ama, le coccola, e la bici gli fa proprio schifo! Infatti se prima i controviali, gli svincoli, i parcheggi, potevano anche star lì per questioni utilitarie, e le difficoltà a muoversi pedalando essere solo un problema creato a valle. Davanti alla facciata si capisce però di essere davvero sgraditi: lì non ci sarebbe alcuna difficoltà a mettere a disposizione dei ciclisti che ci sono arrivati un decoroso spazio di sosta. Cose da nulla rispetto alle vertiginose spirali in stile Piranesi che salgono e scendono nel nebbioso crepuscolo metropolitano, verso le mille luci al neon delle piazzole per auto. Diciamo qualche decina di tubi di ferro, magari illuminati e riparati dalla pioggia, dove assicurare il telaio mentre si fa spesa.

E invece no. Solo nell’ultimo fine settimana, in tre diversi comuni dell’hinterland milanese mi è capitato in bicicletta di avvicinarmi rispettivamente a due ipermercati del medesimo marchio, e a un grande negozio di articoli per il fai-da-te. In tutti e tre i casi ho comprato prodotti per qualche decina di euro, e in tutti e tre i casi non c’era nessuno, ripeto nessuno, spazio di sosta per le biciclette, che pure si notavano attaccate qui e là negli angolini più protetti da qualche manovra di Suv rostrato. Siamo clienti anche noi, cosa di cui in fondo vi siete già accorti in qualche modo: i cestini di plastica che mettete all’ingresso come alternativa ai carrelli, corrispondono più o meno a quanto si può caricare nei cestini di una bicicletta. Insomma, anche i privati avrebbero qualcosa da dire per la mobilità sostenibile. Invece, magari minacciosi (chissà) tacciono.

 

Fabrizio Bottini

 



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