16 ottobre 2013

CENTRO MACIACHINI: TROPPE MANI PER UNA SOLA PAGINA


Il Centro Maciachini è un esteso complesso edilizio ormai in fase di ultimazione all’interno di un largo isolato compreso fra due strade di grande traffico (via Imbonati e via Crespi) e due strade secondarie (via Bovio e via Bracco). A un primo colpo d’occhio il complesso edilizio, sorto sul terreno della fabbrica dismessa Carlo Erba, si presenta molto articolato, vario, movimentato; ricco di volumi e di tipologie alquanto diverse tra loro.

03gardella35fbTra i diversi progettisti presenti Italo Rota, nel presentare il suo intervento, fa riferimento al Neoplasticismo, movimento artistico comparso in Olanda quasi un secolo fa. Il rimando al Neoplasticismo sembra tuttavia alquanto fragile. Per giustificarlo e sostenerlo il progettista fa rimarcare l’accostamento delle coperture colorate degli immobili, se viste dall’alto, con le campiture colorate dei dipinti di Piet Mondrian, maestro del Neoplasticismo. L’accostamento fortunatamente resta una illusione; se fosse vero degenererebbe in un deplorevole formalismo al quale sarebbe necessariamente sacrificata la funzionalità delle costruzioni; e sul quale avrebbe dato un giudizio severissimo l’architetto Ernesto Nathan Rogers che della lotta al formalismo aveva fatto la sua missione culturale.

In realtà il Neoplasticismo chiamato in causa dal progettista non presuppone una composizione plastica, cioè un assemblamento di volumi, ma si caratterizza per una scomposizione plastica, cioè per uno smembramento di volumi, per la loro disarticolazione nei diversi piani da cui sono racchiusi. In Olanda, ad Utrecht, la casa progettata nell’anno 1934 da Gerrit Rietveld è un esempio eloquente di questa scomposizione plastica: i muri sono diventati semplici lastre distaccate tra loro e poi riaccostate; tutto l’involucro sembra essere stato prima scomposto e poi ricomposto.

Nel Centro Maciachini al contrario i corpi di fabbrica si presentano fitti, compatti, strettamente accostati, sia nella zona a est dell’isolato, sia nella zona a sud, dove la volumetria è tenuta molto alta per compensare il vuoto aperto nella zona centrale e riservato al verde. Tale zona, insieme al viale alberato che le passa in tangenza, è il punto di forza del progetto. Oltre a un notevole pregio urbanistico va anche riconosciuto un lodevole merito sociale giacché essa sarà aperta tanto ai residenti del Centro quanto alla popolazione circostante, e contribuirà a migliorare le precarie condizioni igieniche di una periferia densamente costruita, intensamente popolata e totalmente priva di verde.

Tuttavia la collocazione dell’area verde nella zona settentrionale dell’isolato e la corrispondente concentrazione di edifici nella zona meridionale non può dirsi una scelta felice. Sarebbe stato meglio capovolgere le due collocazioni: mettere gli edifici a nord e il verde a sud. La soluzione adottata dal progetto penalizza chi occupa gli quegli edifici; se ci si rivolge al sole non si scorge il verde, se si guarda il verde non si vede il sole.

Il rapporto di un qualsiasi nuovo insediamento con ciò che gli sta intorno, con le preesistenze ambientali, è imprescindibile da un buon risultato, da un intervento che si proponga migliorare lo stato di fatto.

Le preesistenze ambientali intorno al Centro Maciachini non sono entusiasmanti: un coacervo di edifici strettamente addensati, un campionario di tipologie incongrue, difformi, disparate. Vi sono tuttavia all’interno del tessuto edilizio che circonda il Centro due vettori non trascurabili, due riferimenti da non ignorare: sono le due strade secondarie che provengono da ovest e da est e si arrestano contro i due lati maggiori dell’isolato. Essendo allineate sullo stesso asse le due strade avrebbero potuto facilmente essere collegate da un percorso diverso da quello progettato e condotto attraverso l’intero isolato; avrebbe potuto dare vita a un nuovo tragitto urbano, verso il quale sarebbero confluiti i maggiori flussi pedonali della zona, e ai lati del quale si sarebbe creata una varia e vivace successione di vecchie case e di nuovi alberi, adatta a rendere più gradevole la nuova arteria pedonale; questa oltretutto avrebbe potuto proseguire nelle due strade esistenti, invece di terminare miseramente, come succede con il progetto attuale, contro le anonime facciate di due banali case di periferia.

In passato ogni nuova costruzione si insediava con attenzione nell’ambiente pre-esistente, fosse esso naturale come la campagna o artificiale come la città. Il rapporto del nuovo edificio con i dintorni era imprescindibile e imperativo. Ciò che in passato non si poteva ammettere era l’indifferenza per i dintorni; la scarsa considerazione per l’ambiente entro cui si trovava ad agire. Nel Centro Maciachini la collocazione impropria del viale alberato è una debolezza che si poteva evitare.

Tuttavia vi è un dettaglio in cui il progetto dimostra di aver tenuto conto dei dintorni, e di aver prestato attenzione alle preesistenze; peccato che una spiacevole disattenzione sia intervenuta a distruggere la bontà della idea iniziale. È il caso della ciminiera in mattoni lasciata intatta a ricordo della fabbrica demolita e messa in evidenza sul fondo del marciapiede di via Imbonati. Per migliorare la vista della alta e sottile costruzione il marciapiede viene allargato e fatto divergere nella direzione voluta. Ma a che serve questo attento accorgimento prospettico se poi dietro alla ciminiera si permette la elevazione di un’alta e massiccia torre che annulla lo slanciato profilo della vecchia ciminiera ritagliata contro il cielo?

L’architettura del passato aveva un carattere positivo: la omogeneità; la conformità degli edifici, l’appartenenza degli stessi a un medesimo disegno unitario. L’architettura di oggi ama la discontinuità, la difformità degli edifici, la loro stridente diversità. Sarebbe stato auspicabile che l’arca a verde e il viale alberato del Centro Maciachini fossero delimitati e circoscritti da un perimetro edilizio uniforme. Ciò avrebbe giustificato la definizione, a loro data dal progettista, di “Land-mark”, ossia di “segno emergente nel paesaggio”, capace di attirare l’attenzione dei passanti e di fungere da polo di ritrovo per gli abitanti.

I confini di quest’area al contrario sono del tutto disomogenei e dispiegano un campionario di architetture tutte diverse e poco intonate tra loro: a est l’incombente parete di un massiccio volume a più piani; a sud una fila di bassi edifici collegati da una elaborata pensilina, e subito dietro a questa alte facciate rivestite di vivaci pannelli multicolori che ricordano i maglioni del noto stilista Missoni; a ovest la fiancata del Teatro, la cui struttura inclinata sembra sopravvissuta a una scossa di terremoto; e poco oltre il retro di uno Stabilimento di Bellezza (il villaggio fitness ndr) perforato da grandi fori circolari come giganteschi oblò di un transatlantico. Un contorno di edifici così eterogeneo e disparato disorienta, confonde, sconcerta; e compromette l’effetto distensivo e rilassante che l’ampia zona verde dovrebbe offrire a chi la frequenta e vi sosta.

L’abisso tra il volto della città di ieri e quello di oggi è reso ancora più evidente dal vivace contrasto creatosi fra i due lati di via Imbonati: da una parte, verso i quartieri preesistenti, una cortina di vecchie facciate d’ante-guerra, ordinata, composta, omogenea; dall’altra, verso il Centro Maciachini, la concentrazione dei nuovi volumi irregolari, difformi, contrastanti.

In un epoca di esasperante individualismo com’è l’attuale una sola ossessione accomuna i progettisti di oggi, una sola ambizione li stimola: essere originali, unici, diversi. Non si accorgono che è questa loro ambizione a renderli tutti uguali, tutti simili, tutti indistinti gli uni dagli altri. Volere affermare a tutti costi la propria originalità porta al risultato opposto di perdere ogni originalità.

 

Jacopo Gardella

 

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