16 ottobre 2013

DOPO LAMPEDUSA: CAPITALI LIBERI MIGRANTI, UOMINI REI CLANDESTINI


Crisi radicali chiedono risposte radicali. La tragedia di Lampedusa, l’ultima, aggiorna la contabilità dei morti e ci mette di fronte, ci squaderna, la drammatica condizione di esseri umani che fuggono dalla fame, dalla malattia, dalla povertà estrema, ma soprattutto dall’assenza di futuro nel sud del mondo.

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Solo l’assenza di un futuro in un qualche modo accettabile, può muovere verso nord la carovana infinita di donne, bambini, uomini, verso nord, verso una nuova vita, una nuova dimensione umana, sociale, esistenziale. Questa crisi epocale, questo sommovimento nel profondo del sociale mondiale, chiede risposte radicali per la sua ampiezza e intensità, ma anche per il suo segno, il suo essere “sintomo”, manifestazione febbrile, di una condizione generale dell’organismo planetario, ormai critica. Guardiamo al sintomo, allora, per diagnosticare la malattia e non per occultarla, magari prescrivendo aspirine a un paziente che soffre di polmonite.

Se milioni di uomini e donne, africani, asiatici e sudamericani, pensano che solo andando a nord, attraverso il Mediterraneo o il Rio Grande, ci si può salvare, e se questa decisione è tanto più irremovibile quanto più è disperata la loro condizione e forte la speranza di cambiamento, cosa possono fare le leggi degli stati? Come possono fermare un cambiamento tanto inesorabile, quanto immensa la marea umana che preme, s’infrange e si rinnova inesausta ogni istante contro le barriere dei vecchi confini nazionali?

Il Nord prova a difendere, con lo stigma della clandestinità, l’idea morale, il concetto, la legittimità stessa dei confini territoriali dello stato nazionale, e con questa la stessa nozione di “cittadinanza” che vi è inscritta, ma senza esito, senz’ altro effetto che non sia lo svuotare il mare con un secchiello. Non si svuota il mare di centinaia di milioni di esseri umani che sperano e di-sperano, con il secchiello del reato di immigrazione clandestina: cosa è questo reato, quale effettivo deterrente produce verso persone che accettano il rischio di morire prima ancora di giungere sulle spiagge, gettate in pieno mare dai barconi prima ancora di divenire incriminabili?

Come non rendersi conto che l’emergenza non è emergenza quando diviene prassi quotidiana, molecolare, universale e perpetua, quando neppure chi rischia l’esistenza la percepisce come qualcosa di peggio del restare in vita, nella sua vita, talmente inaccettabile da non volerla più vivere nei suoi attuali “confini”? Le innumerevoli crisi personali dei migranti ci raccontano di una crisi radicale mondiale che mette in questione il fondamento stesso dell’ordinamento internazionale, ma ancora più a fondo lo stesso concetto di cittadinanza, strutturato com’è tuttora attorno al profilo dello stato nazionale.

Cittadinanza, status giuridico di diritti e doveri, creazione storica, sviluppata al massimo grado negli ultimi secoli dall’occidente democratico. Cittadinanza, spazio vitale, ambito in cui le persone condividono un’esperienza sociale fondativa, e, condividendolo, ne sono soggetti paritari: cittadini. Lo status di cittadino rimanda essenzialmente a un’inclusione e a una separazione: chi nasce nello spazio della comunità acquisisce diritti e doveri, chi non vi si trova, ne è escluso. e l’esclusione non ammette eccezioni neppure a favore di chi nasce sul territorio nazionale ma ahimè generato da lombi esotici.

Ma oggi, chiediamoci, e chiediamocelo senza attardarci pigramente su costrutti ereditati dal passato, cosa vuol dire davvero essere cittadino di uno stato, componente di una comunità nazionale. Nel momento in cui capitali e merci, informazioni e stili di vita, rappresentazioni e produzioni, rivolte e missioni di pace, minacce e opportunità, attraversano liberamente i confini degli stati nazionali, sovvertendo strutture produttive, aggregazioni sociali e visioni del mondo, solo le persone devono “stare ferme” ben dentro i cerchi confinari? Che senso ha?

Cosa è del cittadino, se lo stato nazionale diviene sempre più guscio inerte di un processo omeostatico che fluidifica l’interno con l’esterno, e li mischia sempre più ogni giorno? Se i nostri figli giocano con la Play Station con un coetaneo messicano, se le App affollano i cellulari di un maghrebino e di un cinese, se il calcio diviene sempre più meta-gioco mondiale, sogno mediatico globale di tutti i ragazzini e del “fanciullo che è in noi”, se le felpe sono vietnamite sotto brand italiano, se Facebook e Google ci connettono senza respiro da un capo all’altro del mondo, se un fondo finanziario canadese può domani requisire tutto il cacao esistente su scala mondiale rovinando milioni di piccoli coltivatori equatoriali, cosa resta dello stato nazionale se non il simulacro di una condizione di parità, sotto cui troviamo privilegi che alcuni intendono difendere a scapito di altri? E come possono questi altri, questi a cui tutto viene tolto e al tempo stesso tutto restituito simbolicamente come “sogno possibile”, semplicemente acquietarsi come vacche sacre del Bramaputra, immote e come basite di fronte all’assenza di un futuro che non sia il ripetersi indefinito di un presente senza speranza?

E come non vedere che questa assenza di cittadinanza corrisponde sempre più, come una moneta truccata con la medesima effige sui due lati, alla perdita di “cittadinanza” che colpisce gli operai di una fabbrica delocalizzata in una notte d’agosto? Cosa unisce ormai, nel nome della cittadinanza nazionale, lavoratore a capitalista, se il loro orizzonte non è più lo stesso, se la comunità nazionale per il secondo non è altro che un vincolo del passato e per il primo un presente inaccettabile, se l’essere cittadino è sempre meno espressione e fonte di comunità tra eguali, ammesso pure che lo sia mai veramente stata?

Crisi radicali, chiedono risposte radicali, nuova visione, nuovo racconto, pensiero “laterale” capace di rimettere in questione anche gli istituti che abbiamo ereditato dal passato come preziosi beni immateriali e che sono sempre più ora “fortini” ingiustificabili e indifendibili storicamente.

A Lampedusa, alla crisi di un mondo troppo piccolo e ingiusto, non si risponde con la Legge Bossi Fini, ma neppure solo con la sua depenalizzazione: è solo un secchiello con i buchi che serve, più che a svuotare l’acqua, a scaricare la nostra coscienza di bravi cittadini del secolo scorso, rendendoci ancora accettabile una forma stato pensata nel, e per, il vecchio mondo.

Serve altro, servono coraggiosi istituti innovativi che riconoscano il mutamento e regolino la nostra nuova condizione di cittadini del mondo e nel mondo. Serve una revisione delle ragioni di scambio che impediscano gli “arbitraggi” calcolati e incassati ogni momento dal capitalismo finanziario telematico, dagli imprenditori, con tutta la coorte di interessi “diffusi” che si portano dietro, charity internazionali comprese, liberi, loro sì, di scegliere dove migrare, comparando costi e benefici delle difese ambientali, dei livelli fiscali, delle tutele sindacali, nei diversi stati nazionali che fanno a gara al ribasso (la chiamano competitività) per attrarli.

Servono necessariamente politiche, strumenti e strategie, intermedie e locali, prima fra tutte una nuova cooperazione tra i due lati, nord e sud, del Mediterraneo, ma senza risposte radicali ci resterà in mano solo il secchiello, perché abbiamo bisogno disperatamente di un’altra visione, di un internazionalismo rivisitato, di un “comunismo” che, emendandosi dagli orrori passati, si ridefinisca a partire dal concetto di terra come “spazio comune universale” e ci dia il passaporto di “cittadini del mondo”. Terra Bene Comune.

 

Giuseppe Ucciero

 



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