9 ottobre 2013

teatro – FERDINANDO BRUNI


 

INTERVISTA A FERDINANDO BRUNI

Ferdinando Bruni, attore, regista e scenografo pluripremiato, fondatore nel 1973 del Teatro dell’Elfo e attuale co-direttore del Teatro Elfo Puccini e di Teatridithalia, il 18 ottobre debutterai nel ruolo dell’anchorman David Frost in Frost/Nixon di Peter Morgan, spettacolo del quale curi anche la regia insieme a Elio De Capitani. Ti chiedo subito come mai avete scelto di mettere in scena questo testo? Guarda, quasi casualmente gli spettacoli che mettiamo in scena ultimamente sono tutti spettacoli scritti originariamente per il teatro che poi sono diventati film. The History Boys, ad esempio. O Angels
in America che è diventato una serie televisiva negli Stati Uniti. Senza parlare poi di spettacoli teatrali che sono scritti da persone coinvolte nel cinema.

sipario_34Come Rosso. Esatto. Di John Logan, che è un grande sceneggiatore hollywoodiano. Questo perché? Perché ci interessa portare avanti l’idea di un teatro che sia in grado di parlare di temi complessi, seri e profondi, ma che sia anche comunicativo. Cioè che abbia la stessa capacità di comunicazione che ha il cinema. Il discorso è nato in concomitanza con l’apertura di questo spazio, che si chiama “Teatro d’arte contemporanea” come sottotitolo, e per noi l’arte contemporanea è intesa in questo senso. Vogliamo applicare l’esperienza che ci siamo fatti in tutti questi anni di teatro, sulla recitazione e sulla costruzione di personaggi, per raccontare storie vive che possano coinvolgere il pubblico. Frost/Nixon, che è primo testo teatrale di Peter Morgan, ci sembrava il materiale adatto al tipo di teatro che vogliamo fare.

Anche in questo caso, dopo Logan, Bennet e Kushner si tratta di un autore anglosassone. Avete una predilezione per la drammaturgia anglo-americana? Sì, c’è un legame molto forte. Ma credo che sia abbastanza per caso. Cioè, non è che i testi tedeschi non ci piacciono o abbiamo qualcosa contro i francesi, ma la drammaturgia anglosassone nasce in un sistema teatrale che è anche un sistema economico molto forte, molto centrale nella società: in Inghilterra si va ancora molto a teatro e il teatro è anche un’industria, quindi si pone precisamente l’idea di comunicare e di coinvolgere il pubblico. Non è mai un teatro d’elite. Anche quando è più stravagante è un teatro che tiene sempre conto dell’interlocutore. Certe ricerche europee invece sono più legate a un concetto di “teatro d’arte” secondo noi decisamente superato, in cui l’autore deve essere un’artista. Io credo che gli scrittori anglosassoni non si pongano nemmeno questo problema, ancora di più quelli che lavorano nel cinema: sono artigiani, artigiani di altissimo livello. E poi non danno mai per scontato quello che conosce o non conosce il pubblico. Ad esempio abbiamo appena fatto a Roma una lettura di un testo di Alan Bennet con in scena Auden e Benjamin Britten, ma l’autore si preoccupava fin dall’inizio di spiegare chi fossero, e questo succede anche in Rosso o in History Boys e per me è importante perché in questo modo il teatro, in un certo senso, educa. Uno che viene a vedere Rosso può darsi che poi abbia voglia di andare a informarsi su cos’è stato l’espressionismo astratto. Questo è un teatro, secondo me, vivo. E necessario.

Com’è fare la regia in due? Condividete il piano generale e poi vi occupate di aspetti diversi oppure ogni scelta è presa a quattro mani? In genere non abbiamo specializzazioni interne, lavoriamo di pari passo. Ovviamente è un metodo che si è andato affinando con gli anni. Adesso ho perso il conto ma credo che sia la quindicesima regia che facciamo insieme, alcune anche molto grandi come L’anima buona del Sezuan con Mariangela Melato, o Angels in America, quindi abbiamo creato un codice comune. Poi magari quando lavoriamo da soli andiamo in altre direzioni. Io ad esempio ho varie “ditte” e con Francesco Frongia lavoro proprio su altri fronti rispetto a quando lavoro con Elio. Questo avere tre “anime” mi diverte molto, perché permette di rinnovarsi.

Qual è la terza? Quando lavoro da solo. Che ti dirò, in realtà … non è che mi diverta meno, eh, però io trovo che sia molto interessante lavorare in due perché da una parte ci si completa e dall’altra ci si corregge. Quattro occhi sono meglio di due, soprattutto in quei casi – come Frost/Nixon – in cui siamo anche in scena.

Questo non crea mai confusione negli attori? No, in generale no. Forse all’inizio, se è successo, ma adesso no. Anche perché lavoriamo con un gruppo di attori che conosciamo e che ci conosce, per cui ci si riesce sempre a capire.

Per quanto riguarda gli attori, a parte quelli che conosci già, come fai a sceglierli? Facciamo tanti provini. Oppure anche per caso. Appena ho un po’ di tempo cerco di andare a vedere, oltre ovviamente agli spettacoli, anche i saggi nelle scuole di recitazione, ad esempio l’anno scorso ho fatto parte della commissione alla Paolo Grassi e poi sto tutti gli anni nella commissione del Premio Hystrio proprio per quello, così vedo tanti attori e molti li abbiamo presi anche da lì. Bisogna vederli, gli attori. Sai cosa, però … ce ne sono tanti. Ci sono molte più difficoltà nel trovare attori della mia generazione o appena più giovani. Dai cinquant’anni in poi gli attori sembra che muoiano. Invece di giovani ce ne sono molti, e poi ultimamente tanti che vogliono proprio fare teatro, mentre negli anni novanta volevano quasi tutti fare cinema. Siccome adesso molti hanno mangiato la foglia, perché nel cinema si fanno esperienze non sempre così gratificanti e non così facili, hanno una coscienza diversa.

Come mai tu non hai fatto cinema? Non abbiamo tempo. Anche Elio ha fatto poi solo Il Caimano. E nel ’93, da quando abbiamo creato Teatridithalia, abbiamo dovuto fare delle scelte. Io avevo un’attività abbastanza fiorente di scenografo e costumista nella lirica in Francia ma ho dovuto abbandonare anche quella. Quindi il cinema … sì, magari mi piacerebbe, anche se nelle esperienze che ho fatto mi sono un po’ annoiato, per i tempi di attesa che sono molto lunghi … e però sono contento perché alla fine fra le due cose preferisco il teatro, è più vivo, c’è il contatto diretto con il pubblico.

E comunque visto com’è andata con l’Elfo… Sì, sì, non mi lamento.

Per quanto riguarda l’Elfo, appunto. Come teatro è versatile, in quanto ogni anno ospita molti spettacoli diversi fra loro, ma rispetto ad altri teatri istituzionali altrettanto grandi, ha un suo stile e una sua estetica decisamente riconoscibili, soprattutto nelle vostre produzioni. Nell’arte, secondo te, è più importante la versatilità oppure la riconoscibilità? Secondo me la riconoscibilità è una cosa che si conquista malgrado. Nel senso che a noi ci hanno anche detto: “C’è gente che passa metà della vita a cercarsi uno stile e l’altra metà a cercare di mantenerlo, voi cambiate ogni spettacolo”. Quindi sicuramente come dici tu c’è un imprinting, un’impronta, che alla fine deriva dal fatto che siamo noi, però ci piace sparigliare, frugare nei repertori e negli stili. Ultimamente abbiamo una coerenza, diciamo, di repertorio, però ad esempio fra Rosso e Alice Underground c’è una certa differenza per cui, sì, secondo me la riconoscibilità è una cosa che si conquista malgrado. È un gusto che filtra attraverso i generi. Quando abbiamo aperto la sede attuale dell’Elfo la frase che presentava la stagione era “il teatro ha molte facce”, ed è una cosa che penso. Non sopporto il massimalismo teatrale, cioè: io faccio un tipo di teatro e quindi tutto il resto è uno schifo. Che poi è una noia mortale, perché il bello del teatro è che puoi trovare cose magnifiche anche dove non te l’aspetti. Se lo vivi in un certo modo è vitale, se lo vivi in un altro invece è morto.

Come un certo tipo di ricerca che continua a definire “avanguardia” cose che ormai si fanno da trent’anni. Sì, sfondi una porta aperta, io credo che quel tipo di ricerca abbia fatto il suo tempo. Credo che non ci sia nessun bisogno di fare ricerca formale, adesso, e che il problema sia da un’altra parte. Cioè, è stata un’esperienza di grande rilevanza, però ha esaurito la sua carica di innovazione. E anche di necessità. È un genere. Da tempo. Come l’operetta. C’è l’operetta, dove canti, e c’è il teatro d’avanguardia, dove ti spogli, urli, rompi le cose, oppure stai un’ora fermo e muovi un orecchio, eccetera. Quelle cose hanno stancato. E secondo me sono anche pericolose, perché sono quelle per cui la gente non va più a teatro. Ci vanno dodici critici e venticinque blogghisti che si dicono fra di loro “è bello”, “è bello”, e poi la cosa finisce lì. Comunque a noi in un certo senso interessa la ricerca di nuove forme, ma ci deve essere dietro un senso, ti devi porre il problema che quello che fai lo vede qualcuno, devi raccontargli qualcosa. Bisogna rifondare il patto con il pubblico. Il teatro funziona su quello: io faccio una cosa e tu mi credi. Perché hai interesse a credermi, ti porto da un’altra parte, ti faccio pensare a qualcosa a cui non avevi pensato, ti faccio scoprire qualcosa di te. Però c’è un patto, e se non ti interessa niente di chi ti sta a guardare questo patto si rompe. O anche, ad esempio, se dai per scontato che ti guarda sappia certe cose. Per dire, sono stati fatti cinquantamila spettacoli su Amleto, va bene, però non è vero che Amleto è così noto, che tutti lo conoscono. Soprattutto se uno ha quindici anni e non ha mai visto un Amleto in vita sua, ha diritto a vederselo rappresentato com’è e non, che ne so, uno che pesta una bistecca per venti minuti e dice che quello lì è Amleto. Poi magari uno che ne ha già visti sedici guarda il modo in cui la bistecca viene pestata e capisce che è una rilettura di Amleto. Però sono due linguaggi diversi. E sono due cose diverse. E soprattutto c’è una necessità diversa.

È un citazionismo post-moderno che è arrivato agli sgoccioli. Sì, fare opere sulle opere. Secondo me in questa accezione il post-moderno è morto ed è bene che sia morto prima di far morire anche il resto.

E come sarà nominata, secondo te, la tendenza che prenderà – che sta già prendendo – il posto di questo post-modernismo? Almeno in teatro, visto che se andassimo anche a parlare di questo argomento in arte, letteratura e filosofia … Sì, non finiremmo più. Beh, in arte comunque questo modo di fare opere sulle opere è già definitivamente superato da tempo. Il teatro è un po’ più lento, almeno in Italia. Comunque, per rispondere alla tua domanda, a noi hanno detto che facciamo teatro “internazional popolare”. Che è una cosa che mi diverte molto e mi ci riconosco anche.

È una bella definizione. Sì, rende l’idea, secondo me.

Benissimo. Siete stati definiti anche “la seconda generazione teatrale milanese”, cioè gli eredi di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Sì, il modello teatrale da cui veniamo è quello. Abbiamo iniziato a fare spettacoli nei teatri di quartiere organizzati da Paolo Grassi e poi abbiamo personalizzato il suo modello. Abbiamo avuto anche altre influenze. Negli anni ’70 il Theatre du Soleil ci ha dato delle dritte di tipo artistico e negli anni ’80 la Schaubűhne ci ha aiutato dal punto di vista della struttura organizzativa. E poi la compagnia di Pina Bausch ci ha dato l’idea del repertorio. Una volta gli spettacoli si facevano una stagione sola e poi si buttavano via.

Davvero? Io sono nato, probabilmente, che si faceva già come oggi. Quindi in Italia l’idea del repertorio l’avete riportata voi? Sì. Cioè, ovviamente si faceva già tanti anni fa con la Commedia dell’Arte. Dopodiché come pratica è stata accantonata. Noi citavamo sempre il Teatro Stabile di Genova che faceva ogni anno uno spettacolo, una tournée di una stagione, massimo una stagione e mezzo, e poi bruciava le scenografie. Tenere un repertorio vuol dire avere magazzini, sartorie, eccetera, però vuol dire far vivere gli spettacoli anche per vent’anni. Non di fila, però, magari riprendendoli. È un po’ l’idea dello “stabile privato”, di derivazione Grassiana, che abbiamo creato noi insieme al Franco Parenti e al Teatro Due di Parma.

Secondo te esiste una “terza generazione”? Com’è la scena teatrale milanese odierna? Molto meglio di quello che era quindici anni fa. Siamo andati avanti per anni a dire che “l’unica cosa che è nata nella scena milanese è l’ATIR di Serena Sinigallia”, che in effetti in quel periodo è stata davvero l’unica novità. Invece adesso la scena è molto più vivace e ben differenziata. Ci sono un po’ di teatri però, secondo me, che hanno perso per strada la loro direzione.

Immagino che non mi dirai quali. (rido) Eh, no. (ride) Non durante l’intervista. Però ce ne sono un paio che hanno proprio perso la bussola. Mentre altri che sono nati da meno tempo funzionano benissimo, tipo il Teatro I o lo Spazio Tertulliano. Ovviamente dipende soprattutto da chi i teatri li gestisce, se ha una visione artistica ma soprattutto esistenziale, se è attento a quello che succede. Quindi secondo me è una bella scena teatrale, unica in Italia.

Cosa vorresti ci fosse fra dieci anni? Una cosa semplicissima: vorrei che ci fossero più risorse. Questo è fondamentale. Perché il risvolto di tutto questo ottimismo è che in realtà la situazione è molto difficile, molto pesante, perché non si investe più in cultura da vent’anni. Questo è un problema per noi e per altri ma è anche un sintomo: quando lo stato deciderà di investire sulla cultura vorrà dire che sarà uno stato che funziona meglio e ha una visione della società più europea, più aperta, e anche più intelligente.

Ti ringrazio molto. Grazie a te

Emanuele Aldrovandi

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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