1 giugno 2009

LA RETORICA DEI LUOGHI: IL PUBBLICO IN FRANTUMI


Le società tradizionali non avevano spazi pubblici, tutte le relazioni sociali erano dominate dai gruppi primari, famiglie, clans, fratrie, gentes, tribù e così via e l’individuo era imprigionato al loro interno. Se un membro del clan veniva offeso tutti gli altri erano obbligati a vendicarsi. Per molti secoli e millenni le abitazioni erano addossate le une alle altre come nella prima città di Cathal Uyuk, senza spazi pubblici. L’individuo era prigioniero dei clans, e tra i clans avvenivano negoziazioni, ma non tra gli individui, così per lo spazio pubblico bastavano luoghi deputati, a talvolta con caratteri religiosi. Come ci hanno spiegato Gustave Glotz, Max Weber, Henri Pirenne e tanti altri studiosi è solo quando un’entità terza, la polis, il municipium, la città e infine lo Stato, emerge e s’impone sui clans, che si crea uno spazio pubblico caratterizzato appunto dalla sua pubblicità (Öffentlichkeit) cioè dalla libertà di accesso, nessuno fa pagare il biglietto o ti chiede una carta d’identità per entrare nella piazza comunale. Ma i clans sono sempre tra noi nascosti e in agguato dietro le nostre paure. Non importa che nella città moderna il grosso delle più efferate violenze (stupri, incesti, violenze fisiche e psicologiche che arrivano anche all’omicidio) avvenga dietro la porta di casa o sul luogo di lavoro o, com’è emerso in misura crescente dalla storia recente, in USA o in Irlanda (ma in Italia c’è il blackout informativo) nelle comunità religiose, di suore e altri religiosi, cui vengono affidati dalla carità pubblica bimbe e bimbi tra i più poveri e sventurati. Non importa che i fatti di violenza nelle vie della città siano in continua diminuzione anche nel nostro paese, e lo sarebbero ancora di più se potessimo depurare i dati dalle vittime degli scontri militari della criminalità organizzata. Non importa: le nostre paure hanno bisogno di trovare una personificazione, che ogni epoca elabora a suo piacere, dalla strega scarmigliata, al leprechaun della foresta, all’uomo nero che pulisce i camini o cuoce la torba nei recessi del bosco, fino ai tanti uomini e donne nere inventate dalla retorica delle paure urbane contemporanee, comprese le black nuns (le monache nere) che nell’immaginario bianco protestante americano svolgevano le medesime funzioni delle zingare, che in America non ci sono. Ovviamente le black nuns erano italiane e irlandesi e quindi dei nuovi venuti.

    E allora ci si rifugia nella retorica dei luoghi e nella frammentazione dello spazio pubblico, si va dalle più radicate e tradizionali segregazioni come quella di genere nei servizi pubblici, alla separazione sessuale nelle scuole, alle “classi” di reddito (prima, seconda, business, economy o terza che di si voglia) alle carrozze del silenzio dei treni americani in cui non si può neppure parlare con il vicino (benedette però, ti salva dallo spudorato di fronte a te che, con tono stentoreo sta comunicando alla moglie di essere in viaggio per Torino mentre la prossima fermata della Freccia Rossa è a Bologna) alla proposta di creare sul TGV francese delle carrozze speciali riservate alle famiglie con bambini, che eviterebbe la sindrome del “Little Jeffrey” che ti spalma una bella manata di Nutella sul tasmanian messo per andare a incontrare l’Amministratore delegato per parlare di quella famosa promozione. Fino alla proposta di rimettere le classi scolastiche separate per bambini e bambine che riprende la serie ritorno all’Ottocento, del 5 in condotta e della media con l’educazione fisica – ma questi hanno la più pallida idea di cosa sono le ore di “ginnastica” nelle scuole italiane? – del grembiule, del ritorno a “poche balle ogni professore insegni solo quello che sa”. Insomma a tutto il bagaglio culturale piccolo borghese in pillole che caratterizza questa classe al potere tagliata fuori dall’evoluzione culturale degli ultimi cinquantenni. Fino alla proposta demenziale e cialtronesca (perché oltretutto impraticabile) di riservare delle carrozze sulla metropolitana ai lombardi (ed io che sono di Verbania? No tu no!). Proposta che può venire solo dal know nothing, che non conosce il nome di Rosa Parks e non si rende conto che il figlio spirituale di quella straordinaria donna, oggi siede sullo scranno più importante del mondo e prima o poi il signore che blatera che l’Italia non vuole diventare una società multietnica dovrà andare lì a chiedere l’elemosina raccontandogli qualche barzelletta sui negher.

    Se andiamo a scavare, ma non ci vuole poi un grande pala, in tutti questi esempi troviamo un filo comune: in ogni caso la giustificazione di chi propone la divisione (maschio, bianco, più ricco, persona con meno problemi) è che gli altri (donne, etnici, meno ricchi, persone con più problemi) stanno meglio se separati, crescono meglio, non si genano al confronto, possono fare il casino che vogliono eccetera, eccetera. E’ esattamente la giustificazione che stava alla base dell’apartheid sudafricano e della segregazione negli stati post-schiavisti nordamericani. Se andiamo un po’ indietro dalle nostre parti, fu persino una prima versione della soluzione finale hitleriana con l’idea di deportare gli ebrei in Madagascar. Ma questi non sanno nulla e non vogliono saper nulla, nemmeno che questo non voler saper nulla, è stato inventato molti decenni fa contro gli immigrati, tra cui gli Italiani, dal movimento know nothing dei razzisti populisti statunitensi. Gnurànt! avrebbero detto il gasista o Tino Scotti: gnurànt. Marchio dell’ignorante è che pretende di sapere: il “ma non vogliamo diventare una società multietnica a un paese che è una spremuta di etnie e che ha conosciuto il suo massimo splendore quando i romani davano la cittadinanza a tutti e facevano generali e imperatori i barbari. “Gnurànt!” grida Tino Scotti, tu non vuoi diventare una società multietnica, ma il mondo lo è già.

    Sarebbe compito di chi ci governa rassicurare i cittadini, ma purtroppo oggi avviene il contrario, chi governa non rappresenta la totalità dei cittadini, ma una maggioranza, e invece di rassicurarli li spaventa, non sapendo di compiere un atto devastante, di consumare capitale sociale ereditato, di bruciare i mobili di casa per scaldarsi. In un bellissimo film di Henri-Georges Clouzot, Le salaire de la peur (Vite vendute, del 1953) con Yves Montand, Charles Vanel e Folco Lulli, il personaggio di Yves Montand insabbiato in un villaggio miserabile del Centro America, si attacca al ricordo di casa annusando un biglietto del metrò. Certo i metro, le stazioni, i tram, i treni tutti i luoghi della nostra pubblicità urbana hanno un odore speciale, come ce l’hanno i mercati e tutte gli altri luoghi pubblici. E’ l’odore degli altri, compreso il nostro. La signora milanese che come riferiscono le gazzette si ritrae dal compagno di viaggio dalla pelle scura su un tram milanese mettendosi ostentatamente il fazzoletto sul naso, è incoraggiata a farlo dalle parole violente di molti che ci governano, e non sa che quel gesto è stato ripetuto milioni di volte nei confronti dei nostri connazionali che viaggiavano sui mezzi pubblici belgi, svizzeri, tedeschi, francesi, americani o australiani. E non sa neppure che le più accurate ricerche hanno dimostrato che non esiste nessuna correlazione tra colore della pelle e odore del corpo. La signora con il fazzoletto pensa da fare un grande gesto di ribellione individuale, ma non fa che mimare la retorica dei panico-fondai, di chi sta spostando l’attenzione pubblica dall’incapacità di questi governanti di creare una società serena, al capro espiatorio dell’ultimo arrivato.

“Milano può e deve ritrovare la sua vocazione di capitale morale del Paese, di crocevia dei popoli e di laboratorio italiano della metropoli postmoderna…
Occorre ricondurre tutte le scelte amministrative a una grande organica visione di città, consapevoli che Milano è parte e protagonista del sistema Paese.”

Bravo Tettamanzi!

Guido Martinotti


 



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