2 giugno 2009

EXPO – PREPARIAMOCI AD UN GRANDE RICATTO


Dopo l’ultima puntata di Anno Zero, andato in onda lunedì 25 Maggio scorso, e dalla lettura dei quotidiani sul tema della fattibilità dell’Expo sorgono grandi interrogativi.

Iniziamo da Anno Zero: è emerso con estrema chiarezza che molte delle grandi opere “accessorie” all’Expo, fossero da anni già state progettate, approvate e in parte finanziate indipendentemente dalla manifestazione del 2015, a vantaggio quindi della città e non dall’evento. Oggi, giocando a un risparmio miope e stupido, si pensa di ridurre le spese mettendo in cantina la realizzazione di strutture di trasporto su gomma ma soprattutto su ferro da anni richieste, utili e necessarie per Milano. In parole povere la tendenza è di investire più sulla costruzione del nuovo polo espositivo, a scapito dei trasporti e delle infrastrutture permanenti, ossia si punta all’effimero (cosa ne sarà delle aree e degli edifici dell’Expo a manifestazione terminata) mentre si rinuncia a completare opere permanenti a servizio della città e della metropoli (metropolitane e viabilità).

Dimentichiamo che la trasmissione ha fatto emergere come il progetto presentato alla BIE sia stato realizzato (per quel poco che ancora si vede) nelle stanze “del palazzo”, e che immancabilmente progetti, finanziamenti, future opere edili e non sono controllati da un ristretto numero di politici e imprenditori che gestiranno fra loro l’intera operazione. Vorrei una volta per tutte invece sottolineare che gli sbandierati 70.000 posti di lavoro sono un’autentica bufala: è probabilmente vero che la realizzazione dell’evento consentirà a 70.000 persone di ottenere un impiego, ma solo per un limitatissimo lasso di tempo. Ci si chiede che cosa ne sarà di questi 70.000 lavoratori alla fine dell’evento. Non si tratta di 70.000 posti di lavoro permanenti e duraturi, ma una sorta di gigantesco e collettivo “call center”, con contratto ovviamente a termine.

Due sono, nel frattempo, le testimonianze inquietanti degli ultimi giorni. Iniziamo dalle più recenti dichiarazioni di Bossi, che prende nettamente le distanze dalla questione Expo, affermando che le “grandi esposizioni”, così come oggi le intendiamo, sono delle manifestazioni che appartengono al passato. Temo di dover dare per certi versi ragione a Bossi. In un mondo globalizzato, impregnato sulle grandi comunicazioni a distanza, che forse finalmente si muove attraverso politiche dettate dal recupero, dal risparmio energetico e sul riuso, un progetto urbanistico e architettonico come quello che ci è stato fatto vagamente vedere è nato vecchio, dannoso e insensato.

La seconda testimonianza, che preoccupa ancora di più, è stata l’intervista al presidente della BIE: afferma che Milano è risultata vincitrice del concorso sulle basi di un dettagliato progetto, e che ogni modifica dovrà essere approvata dai due terzi dei paesi membri della BIE stessa. Dal momento che l’oggetto del “contratto” tra BIE e il governo muta la propria natura, esso va naturalmente ratificato in sede internazionale. Se poi i due terzi dei membri della BIE si dovranno riunire e decidere, questo provocherà ulteriori ritardi per un fatidico via libera.

Permettiamoci un piccolo sforzo d’immaginazione: in assenza di fondi, e nella preoccupazione che Milano perda definitivamente la possibilità di ospitare l’Expo, i nostri amministratori pubblici agiranno – come già stanno facendo – senza dubbio attraverso un semplice processo di “sottrazione” di elementi, piuttosto che osare una rischiosa inversione di marcia. Ovvero si limiteranno a eliminare “il non strettamente necessario” (che guarda caso sarebbero proprio le opere utili alla città anche e soprattutto dopo l’Expo), pur di proseguire verso la versione impoverita – ma ugualmente dannosa – del progetto originario.

Manca oramai il tempo di ascoltare o adottare percorsi alternativi. I commissari della BIE saranno a Milano tra pochi giorni e vorranno vedere, vorranno capire in che direzione i nostri amministratori si stanno muovendo. E’ lecito pensare che i commissari della BIE, anche e soprattutto di fronte alla crisi economica mondiale, finiranno con l’accontentarsi della versione spoglia e impoverita del già brutto progetto di massima iniziale. Via i percorsi d’acqua (e questo non è che un bene, in fondo), via la metropolitana (e questo invece è un danno gravissimo), e così discorrendo finché, al costo di mantenere grossomodo le proprie caratteristiche iniziali, questa Expo possa stancamente arrancare sino alla sua apertura, sempre che la BIE stessa non decida già di affidare la realizzazione dell’Expo a qualche altro paese.

E qui veniamo al ricatto: ascoltino bene tutti coloro che, con grande impegno e passione si stanno dedicando a possibili alternative all’Expo quale quella voluta dal sindaco Moratti. Chiunque avrà la possibilità di interloquire con il Palazzo, ammesso che ci arrivi con un forte apparato organizzato e aggressivo a proporre soluzioni alternative o diverse, si sentirà rispondere che non è possibile modificare nulla di quanto non sia stato promesso alla BIE (per ragioni contrattuali alle quali accennavo poc’anzi) e che qualsiasi radicale cambiamento del progetto iniziale non è più praticabile, a rischio di perdere definitivamente l’occasione stessa dell’Expo, la realizzazione delle opere “connesse” (le poche rimaste) e naturalmente i famigerati 70.000 posti di lavoro.

Purtroppo oggi mancano i tempi perché i nostri amministratori possano, anche volendo, prendere in considerazione un progetto espositivo radicalmente diverso da quello iniziale: pende su di loro la scure dei regolamenti della BIE, e questa stessa scure verrà rivolta a chiunque voglia provare a immaginare un’Expo diversa e senz’altro migliore.

Quindi, salvo difficilmente immaginabili sollevazioni di massa, appare molto probabile che una versione impoverita del progetto, che non solo mantiene intatte tutte le proprie caratteristiche più dannose ma che anche fallisce nel disegno di apportare a Milano benefici permanenti, sarà quella che ci vedremo sfilare davanti. Un consiglio anche a me stesso: oggi forse sarebbe utile smettere di scrivere e scendere in piazza.

Filippo Beltrami Gadola



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