25 settembre 2013

IL COMMERCIO A MILANO: GLI ULTIMI INTERROGATIVI


Voglio concludere questa lunga carrellata sul commercio e i suoi problemi a Milano con tre domande che pongo a me stesso ma anche ai lettori e forse per aprire un dibattito utile nel momento nel quale sembra si avvertano sintomi di una ripresa economica del nostro Paese.

08d'alfonsoFBMa perché tutto questa sembra ridursi a un problema di leggi e ordinanze? Mi pare che a livello di dibattito politico-mediatico non si faccia alcuno sforzo per tenersi aggiornati rispetto alla realtà, tutto gira intorno a presunte rivolte e a stangate che uccidono le imprese riferite dagli stessi interlocutori di cinque, dieci anni fa negli stessi termini e senza effettivo riscontro in quel che è la realtà odierna. Prendiamo la questione sulla moratoria ai nuovi centri commerciali: se ne discute come se si trattasse ancora di una questione relativa al solo commercio, una modernizzazione della distribuzione, negli stessi termini di venti anni fa. Come se la crisi dei consumi e la saturazione dell’area lombarda non avesse già determinato, moratoria o non moratoria, la necessità di ridurre, riposizionare, rivitalizzare cambiando formula le superfici commerciali, non certo ampliandole. Dietro la foglia di fico del commercio girano ancora i vecchi interessi immobiliari, che identificano sviluppo e benessere con metri cubi aggiuntivi, senza tenere conto dei milioni di metri cubi commerciali inutilizzati dell’area milanese: si dovrebbe parlare di nuovi modelli e ci si continua ad accapigliare sulle vecchie formule, come tanti “prodi rolando” che continuano a combattere senza accorgersi di essere morti…

La realtà e così diversa da questa lettura? Si, per fortuna. E lo è per l’azione e l’impegno di tanti operatori, molti giovani, che si danno da fare per innovare e ritrovare un futuro. Porto spesso l’esempio della ristorazione milanese, dove per effetto della crisi degli altri sbocchi lavorativi e di impresa, si sono lanciati moltissimi giovani con scolarità anche molto elevata, provenienti come sempre dal milanese e dal resto d’Italia e ora anche del mondo, trovando a Milano un “humus” imprenditoriale e un pubblico attento alle novità. Molti, moltissimi non hanno avuto fortuna o si sono attardati in formule sbagliate o esaurite, ma quanti hanno lavorato sul rendere la cucina un fatto di cultura, di innovazione, di emozione basata su un pensiero solido e non solo sulla rincorsa di mode dettate da altri hanno reso possibile un risultato ai più sconosciuto.

Milano è oggi una delle poche città al mondo, ripeto al mondo, nella quale è possibile trovare la maggior varietà di tradizioni culinarie dei diversi paesi, superando Londra e tallonando da vicino New York; c’è un numero molto grande di giovani chef, fra essi molte donne, che raccolgono consensi in tutto il mondo e in tutte le classifiche, si è costituita una “scuola” di fatto basata sul confronto e la commistione di stili e culture che non ha uguali in Europa, che è poi la ragione per la quale si incontrano nelle cucine milanesi giovani neozelandesi come cinesi come cileni che sono venuti per questo motivo nella nostra città.

Ci sono speranze di vedere all’opera questo sistema di “reti” e “scuole” oppure è una sola ostruzione intellettuale, nella pratica? Rispondo con le parole di un amico lettore, Antonio Catalfamo, che mi ha raccontato una storia di lavoro in rete vissuta in Sicilia, a Catania, con grande successo, negli anni fra 1940 e 1950. “Mio padre – mi scrive – aveva un negozio di mobili e faceva parte di una “consociazione” che era fiorita nel quartiere chiamato “Spirito Santo” da una chiesetta nel centro del quartiere. Tutti i negozi di quel quartiere (dovevano essere diverse centinaia) trattavano mobili e/o arredamenti e non erano in concorrenza gli uni con gli altri: ognuno coltivava una specializzazione diversa dagli altri. Ma tutte insieme offrivano la più formidabile armata di negozi di arredamento che ci fosse in Sicilia orientale, assolutamente senza rivali quanto ad assortimento. Il loro bacino di utenza non era “il vicinato”; né “il quartiere”; né la città; né la provincia; ma tutta la Sicilia orientale e una parte della vicina Calabria. Venivano clienti anche da Malta. Allora, si trattava di circa 2 milioni di persone.

Si trattava di un tipo di mercato che si può assimilare alla Brianza, che però non si è, per quanto mi risulta, “consociato” mai in modo permanente, eccetto che alla “Fiera del Mobile”. Ma in Brianza i mobilieri mi risultano molto gelosi fra loro, mentre i negozianti di mobili dello Spirito Santo, finito di lavorare, si mettevano a giocare a briscola o tressette. Lo stesso spirito di collaborazione noto anche ora con la “Camera della moda” (ma non giocano a tressette. La differenza fra polimorfismo alla “El Corte Ingles” e il “consociativismo monoculturale” alla “Spirito Santo” è il successo in termini di reach. Nel primo tu vai sperando di trovare. Nel secondo, tu vai sicuro di trovare quello che ti interessa”. Già visto, quindi.

Se non si aggiornano i temi del dibattito coinvolgendo persone e idee che fortunatamente si sono sviluppate fuori dai circuiti tradizionalmente rappresentati, il miglior risultato che si potrà ottenere è di non ostacolare troppo queste nuove realtà attardandosi sulle recriminazioni sul film proiettato lo scorso anno mentre nelle nostre strade, nei nostri laboratori e nella nostra città se ne produce e se ne rappresenta uno nuovo, che prevede per pigri e nostalgici solo una parte marginale e terminale. Non è quella che il Comune di Milano ha scelto.

 

Franco D’Alfonso

 

(3 – fine)

 



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