25 settembre 2013

sipario -TATIANA OLEAR


 

INTERVISTA A TATIANA OLEAR

In questi giorni al Piccolo Teatro di Milano è in scena Tramedautore, festival internazionale del “teatro d’autore”, di cui sei direttrice artistica. Quest’anno, dopo un lungo percorso dedicato al teatro africano, il festival si occupa del subcontinente indiano, affiancando una sezione dedicata alla drammaturgia italiana contemporanea chiamata “la giovine Italia al tempo della crisi”. Quali sono le linee guida del festival e quali sono stati i criteri con cui hai selezionato gli spettacoli? Abbiamo fondamentalmente due grandi temi principali. Per quanto riguarda la parte internazionale abbiamo deciso di dedicarci appunto al subcontinente indiano, sia perché è una realtà che sta avendo un grande sviluppo, sia perché nel nostro paese è presente una sempre crescente migrazione e quindi vorremmo indagare la cultura dei nostri nuovi concittadini che vengono da Sri Lanka, Bangladesh, Pakistan e India, per ora poco presenti culturalmente ma che – con la seconda generazione – lo saranno sempre di più, come negli altri paesi europei.

sipario_32Abbiamo selezionato autori di identità multipla, cioè che appartengono a più culture contemporaneamente. Non si può dire ancora che appartengono al “mondo globale”, però vivono sul confine fra più realtà. Ad esempio abbiamo aperto il festival con un autore dello Sri Lanka che vive attualmente in Australia. Poi ci sono stati Harvest dell’indiana Padmanabhan, che vive attualmente negli Stati Uniti – il suo testo parla del commercio d’organi fra primo e terzo mondo – e Borderline di Kureishi, che è molto famoso e amato in Italia come romanziere e sceneggiatore, ma non ancora come drammaturgo. È un testo scritto nell’anno d’insediamento di Margaret Thatcher, quindi non è nuovo, ma abbiamo deciso di farlo tradurre e rappresentare perché parla di una tematica – la condizione della seconda generazione d’immigrati – che in Inghilterra hanno affrontato trent’anni fa e che noi invece affrontiamo adesso. Prima questa tematica non poteva essere accolta con interesse, e inoltre non c’erano gli attori che potevano realizzare un testo del genere, che infatti è diretto da Ana Shametaj, giovane regista di origine albanese, e interpretato da una compagnia multietnica.

E gli autori italiani sono multiculturali? Alcuni sì. Ad esempio Leonardo Staglianò che è italiano ma si è formato negli Stati Uniti o Davide Carnevali, autore interessantissimo che vive fra Berlino, Buenos Aires e Barcellona, è molto tradotto e rappresentato all’estero e purtroppo pochissimo in Italia. Poi c’è anche il testo vincitore del Premio Hystrio 2011, Babel City, che è scritto in italiano da un’autrice brasiliana, Ana Candida de Carvalho Carneiro. È un testo che tocca le tematiche del mondo globale, raccontando di una metropoli cosmopolita nella sua versione più crudele e disumana, e lo fa con uno stile – come anche Sweet Home Europa di Carnevali – che possiamo chiamare “drammaturgia di frammentazione”, abbastanza presente nella drammaturgia contemporanea all’estero ma poco frequentata dagli autori italiani. L’altro grande filone del festival è la sezione nazionale, nel quale gli autori – quasi tutti giovani – si occupano della crisi attuale, non solo economica ma anche culturale.

Questi temi, la multiculturalità e la crisi, secondo te, influenzano anche le forme espressive? E in che modo? Devo dire di no. Un’altra cosa interessante è che le forme espressive sono molto diverse da un autore all’altro. Dal punto di vista della scrittura, della parte artistica, le impronte sono diversissime. Non ci volevamo limitare a un solo tipo di drammaturgia, assolutamente no. Effettivamente ogni autore secondo la propria sensibilità e il proprio talento racconta le cose che stiamo vivendo tutti quanti, però declinate nel proprio linguaggio personale. Ma non solo nel nostro festival. Anche a livello internazionale è così. Viviamo nel mondo post-postmoderno, ormai si dice che è già stato fatto o provato tutto. C’è sempre qualcuno che inventa qualcosa di un pochino novo, però ha diritto di esistere ormai qualsiasi cosa, l’importante è che sia fatta bene, con talento e con impegno; non solo impegno sociale ma impegno artistico, l’atteggiamento serio e profondo dell’autore nel proprio lavoro. Ma questo non vuol dire che i testi comici non hanno diritto d’esistere. Anche nel festival ci sono molti testi brillanti, che spaziano dall’ironia fino al sarcasmo. Credo non debbano esserci limitazioni. L’importante è che le cose ci riguardino, che la drammaturgia contemporanea ci sia davvero contemporanea. L’importante è questo. Poi ci sono, per carità, temi universali, però sono declinati ed è importante che il pubblico si riconosca in quello che vede.

Secondo te l’autore contemporaneo è più autore o dramaturg di compagnia? Guardando agli spettacoli presenti nel festival, ad esempio, ci sono sia compagnie come Teatro Minimo, nella quale Michele Santeramo scrive sapendo già chi interpreterà i suoi personaggi, sia testi che solo successivamente hanno trovato una regia e degli interpreti. Anche qua io credo che ognuno abbia la propria strada. Insomma, deve viverla come gli è più consono. Esiste una natura artistica, la natura di un talento, che può essere gestito in un modo o in un altro. Però non mi sembra di riscontrare una tendenza generalizzabile né in un senso e neppure nell’altro. Ad esempio abbiamo il Teatro Magro, che chiude il festival, i cui spettacoli sono firmati da tutta la compagnia. Perciò siamo stati ancora più di ampie vedute, senza imputarci sul fatto che l’autore dovesse essere un “autore”.

Benissimo. Secondo te perché in Italia le produzioni dei teatri stabili non partono quasi mai da un testo scritto da un autore teatrale italiano vivente. Al massimo gli autori vengono coinvolti per sviluppare progetti che però hanno origine altrove. Come mai? In Germania e in Inghilterra, ad esempio, non è così. Alcuni teatri scelgono un testo e da lì organizzano la produzione, scegliendo il regista e il cast. Perché in Italia non succede? La mia opinione è che c’è paura di rischiare. E questo è legato sia all’offerta sia alla ricezione del pubblico. In realtà è un circolo vizioso. I teatri hanno paura di rischiare perché il pubblico non viene e il pubblico non viene perché non c’è la tradizione di andare a vedere i testi contemporanei. Non c’è la percezione che è una cosa importante che ci riguarda. Però ovviamente finché non inizierà a comparire questa proposta culturale il pubblico non si abituerà. Noi cerchiamo di fare quello che possiamo per rompere questo circolo vizioso. Outis propone testi contemporanei da tredici anni, però mi rendo conto che è una parentesi piccola rispetto a una stagione intera. Io spero che in questo caso il pubblico milanese raccolga questa opportunità e venga ad assistere a questi spettacoli perché, ripeto, negli altri paesi, anche in Russia ad esempio, gli autori contemporanei sono importanti, tutti sono alla ricerca di testi nuovi e vogliono scoprire cosa c’è di “ultimo”, acchiapparlo e metterlo in scena, così andando a teatro la gente acquista questa dimensione collettiva di cui ultimamente si parla tantissimo anche a livello politico e sociale. Andando a vedere Shakespeare – poi per carità ci sono delle eccelse produzioni di Shakespeare – però poi ti scambi due parole e vai a bere l’aperitivo, invece alcuni testi contemporanei possono toccare profondamente e anche dare input nella vita di una persona e non si tratta solamente di passare una serata.

Oltre ad essere autrice e regista, sei anche insegnante. Che ruolo ha secondo te l’accademia nella formazione degli artisti? Ha un ruolo importante. Perché è la fucina del futuro teatro italiano. Per carità di Dio, ci sono talenti che non hanno mai frequentato nessuna scuola, però è importante avere la struttura che aiuta i giovani a formarsi e poi anche a prendere il volo. Perché sia gli attori, sia i registi che gli autori, per quanto uno può essere un grande talento, finché è giovane tante cose non le sa e magari si mette a scoprire l’acqua calda e perde un sacco di tempo invece che produrre con questa acqua calda qualcosa di fantastico e meraviglioso. Quindi è utile che ci sia qualcuno in accademia che, magari in un giorno solo, gli dice che l’acqua calda si fa così, accendendo i fornelli.

Bellissima risposta. Adesso ti faccio una domanda personale. Tu sei di origine russa, come mai ti sei trasferita e hai iniziato a lavorare in Italia e in particolare a Milano? Per un motivo banalissimo: per amore. Ero in tournée, ho conosciuto un uomo italiano, mi sono innamorata e mi sono sposata. Non era una cosa concettuale, o un progetto per lasciare la Russia. Se mi fossi innamorata di un eschimese magari adesso mi sarei trovata in Alaska.

A organizzare un festival sulla drammaturgia contemporanea in Alaska. È probabile.

Qual è la tua visione del futuro? Cosa vorresti ci fosse fra dieci anni nel teatro italiano? Vorrei che il teatro diventasse un luogo che ci riguarda tutti, in cui andiamo non per passare la serata ma per qualcosa di molto più importante. Per riflettere e vivere dei sentimenti insieme. Sembrerà un po’ patetico ma è quello che penso.

Grazie. Volevo solo aggiungere che durante il weekend ci sarà, oltre a una maratona di sette spettacoli, anche un’iniziativa che, oltre a parlare della crisi, la affronta, e cioè il convegno “Piazza affari”, dedicato alla giovane imprenditorialità italiana nel campo teatrale e del design. Per farci raccontare quelle realtà che, in controtendenza con il resto del paese, dal 2009 ad oggi sono riuscire a crescere e ad affermarsi.

Emanuele Aldrovandi

 

Per info sul festival www.outis.it/tramedautore.php

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi

rubriche@arcipelagomilano.org



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