4 settembre 2013

FELICITÀ / INFELICITÀ: PER IL PD SOLO CATEGORIE DI PENSIERO?


La felicità è una delle parole quasi nuove dell’economia contemporanea, soprattutto in tempo di crisi economica. Sempre più spesso si parla di “happiness economy”. Parola non proprio nuova perché già Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri oltre a Pietro Verri e Cesare Beccaria nel XVIII secolo definirono la scienza economica come” la scienza della pubblica felicità”. Senza contare che già nel 1776 la Costituzione Americana si proponeva il raggiungimento della felicità (naturalmente non per gli schiavi).

cingolani_29Una nuova economia del benessere si sta facendo strada con una correlazione stretta tra reddito e benessere soggettivo. La crisi delle ideologie, in particolare di quelle antagoniste, lascia al mondo economico, specialmente ai gestori multinazionali, un immenso spazio per contribuire a determinare il nostro modo di vivere e la qualità della nostra vita e, di conseguenza della nostra felicità. Le grandi multinazionali diventano non solo un soggetto economico, ma anche politico e sociale: sono sempre di più i veri promotori del livello di vita planetario.

Già nel 1965 Hadley Cantril cercò di confrontare tra di loro la felicità di individui diversi, con una numerazione da 1 a 10 secondo i tipi di domande. Il limite della ricerca fu di pensare che un 7 di un nigeriano fosse comparabile con un 7 di un americano. Nel 1974 Richard Easterlin aprì il dibattito sul paradosso della felicità in economia. I dati di basavano su autovalutazioni soggettive e arrivarono a importanti affermazioni: “1) All’interno di un singolo Paese, in un dato momento, superata una data soglia di reddito, la correlazione tra reddito e felicità non è sempre significativa e robusta: le persone più ricche non sono sempre le più felici. 2) Il confronto tra Paesi non mostra una correlazione significativa tra reddito e felicità e – ove superata una data soglia – i Paesi più poveri non risultano significativamente meno felici di quelli più ricchi. 3)Nel corso della vita, la felicità delle persone sembra dipendere molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza.”.

Dunque, una volta che il reddito pro capite ha superato una data soglia (quella del livello di vita dignitoso rapportato alla cultura alla quale si appartiene) non è più un fattore della felicità soggettiva. Infatti nel dominio dei beni materiali l’adattamento e le aspirazioni vengono assorbiti quasi completamente. Ci sono, però, altri ambiti non economici, nei quali le aspirazioni agiscono meno, come l’ambiente familiare, affettivo e civile. E qui si capisce come spesso una parte della politica riesca a essere più partecipata in senso positivo o negativo in ambiti non sempre legati ai bisogni.

Un altro paradosso della felicità citato da T. Veblen, nel libro “La teoria della classe agiata“, è che il piacere che traiamo dal consumo dipende soprattutto dal valore relativo del consumo stesso, cioè da quanto il livello assoluto di consumo differisce da quello degli altri con i quali normalmente ci confrontiamo. Se il mio reddito aumenta del 10% ma quello del mio collega aumenta del 15% potrei ritrovarmi con un maggiore reddito accompagnato da maggiore insoddisfazione. Questi meccanismi negano la razionalità economica, cioè il reddito degli altri inquina il mio benessere. Questo forse ci spiega la mancanza di solidarietà che si sviluppa in ceti che prima erano legati a ideologie totalizzanti.

La felicità nelle quale si parla nelle teorie economiche è ben lontana dall’idea classica di felicità, legata più alle virtù che al piacere. È più vicina a Bentham che ad Aristotele (per i quali comunque la felicità non era per tutti). Si stanno sviluppando due aspetti della teoria della felicità: una che privilegia l’accesso ai beni materiali tra i quali sono compresi anche il bisogno di sicurezza economica; la “tranquillità” che ti può dare sapere che qualcuno potrà prendersi carico dei tuoi problemi, come ad esempio una polizza di assicurazione, o una buona amministrazione. Quante volte il bisogno di sicurezza facilità l’offerta politica, solo perché coglie l’esigenza di questo giusto bisogno.

Un’altra invece vede nella felicità un diritto al tempo libero, quello che pensava Lafarge nel “diritto alla pigrizia” dove auspicava a fine XIX secolo che, a un maggiore uso della macchine, sarebbe corrisposto più tempo libero. Anzi c’è chi teorizza che il vero lusso e la vera felicità non sono gli status symbol ma il tempo, la pace interiore e il silenzio. Sarà vero? Non è che dietro questa concezione della felicità come rinuncia non c’è una nuova versione del risentimento degli schiavi, come diceva Nietzsche, che per giustificare il loro ruolo hanno creato dei valori superiori nei quali riconoscersi coma la pietà, la mansuetudine, la sofferenza per un bene superiore, ecc., insomma la religione.

Anche Hume diceva che il mercato è una “cooperazione senza sacrificio”, anche se qualche decennio dopo Engels nel “La condizione della classe operaia in Inghilterra” ci ha illustrato che qualche sacrificio c’era. Fino a ora questa ricerca della felicità nella rinuncia non l’ho mai vista nel management rapace di questi anni, se non in casi di brucianti sconfitte per giustificare l’abbandono di situazione di comando.

Nel mondo economico gli emuli di Cincinnato si ritirano dopo le sconfitte non dopo le vittorie, e comunque sempre con laute liquidazioni, in quello politico mai. Non vorrei che la teoria della felicità fosse come “l’etica” delle aziende che si riduce all’uso della carta riciclata per salvare le piante, senza però impedirgli di avere relazioni industriali da inizi 900, e di ingannare i consumatori.

Fatta questa riflessione, che può apparire superficiale, ma giuro che è stato difficile argomentarla, sono un assicuratore non un professore, è un dato reale che la gente ha bisogno di credere ai sogni e di trovare l’isola che non c’è. Tant’è vero che nelle aziende si discute di ecoleadership, cioè dell’attitudine a spendere la propria leadership personale per influire sulla qualità della vita dell’ambiente in cui si lavora, in tempo di crisi si fa molto”marketing”… Tra poco, e non è una battuta, avremo la ISO9000 della felicità.

Per questo la politica e in particolare il PD ha bisogno di una grande sensibilità, poi potremo anche convincere le persone che pagare le tasse è necessario alla tranquillità / felicità. Forse.

 

Massimo Cingolani

 



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