4 settembre 2013

PD UN PARTITO IN CERCA DI AUTORE


La stagione che si apre dal punto di vista politico – e dallo specifico punto di vista di chi la guarda dal Partito Democratico – appare molto impegnativa. Essa è caratterizzata da alcune scelte che non possono essere dilazionate a costo di un logoramento definitivo sia dei legami con la società – cioè la capacità di rappresentare – sia di quello della tenuta interna – cioè della cultura dell’organizzazione, quella stretta di mano invisibile che regge ogni forma di associazione umana che persegue uno scopo.

Il PD ha bisogno di andare al più presto al congresso, senza indugi e con le regole che ci sono perché cambiarle in corso sarebbe sempre e comunque un pasticcio, un’inutile fonte di sospetti e recriminazioni.

Ma sia chiaro, il PD ha bisogno di un congresso che gli permetta di ritrovarsi unito attorno a una visione, a delle linee guida che ispirino i comportamenti a tutti i livelli di governo e di governance in cui i suoi esponenti sono impegnati. Ha bisogno di un leader, non di un segretario organizzativo (la questione del “tempo pieno” è meschina). Ha bisogno di scegliere e ritrovarsi attorno ad alcuni principi ispiratori e questi non possono che incarnarsi in una persona che affermerà il proprio stile di direzione e la propria squadra di collaboratori.

Per questo “segretario del partito” e “candidato premier” devono essere frutto della stessa scelta, caso mai funzioni tecniche separate ma comunque espressione di uno stesso indirizzo. Devono rispondere alla stessa visione. Un leader azzoppato non conviene a nessuno neanche a chi sarà chiamato a svolgere quel fondamentale “servizio” di ogni gruppo democratico che è l’opposizione. Per questo pensare di separare i congressi locali e regionali dalla scelta della leadership nazionale appare l’estremo tentativo di negoziare potere (calante) e condizionare un esito (che appare scontato).

Al congresso il PD deve scegliere i pilastri sui quali costruire la propria identità e lo deve fare parlando dei problemi che le persone vivono tutti i giorni non solo o non tanto quelli che interessano il ceto politico, coloro che vivono di politica. E lo deve fare – se vuole giustificare la propria stessa esistenza – ripartendo da alcuni dei suoi tratti costitutivi cioè quelle ragioni che gli anni dell’usato sicuro, della ditta e della bocciofila hanno messo in secondo piano.

Il PD nasce con una visione maggioritaria e non proporzionalista della politica, si propone di affermare l’alternanza al governo e il ricambio delle classi dirigenti, si propone cioè di superare i limiti di quella peculiarità italiana che è stata definita consociativismo. Il PD è nato per affermare una competizione politica basata su due schieramenti che, dovendo competere per la conquista della maggioranza, sono costretti a impostare la propria offerta politica in modo aperto e inclusivo, non su tanti partiti che per garantire la propria stessa sopravvivenza (ben sostenuta dal finanziamento pubblico) si irrigidiscono su posizioni esclusive e gestiscono un potere di veto che diventa rendita di posizione ideologiche, territoriali o culturali.

Ecco perché il governo “di necessità” che Letta sta portando avanti non può avere altro compito che quello, già di per se stesso importantissimo, di superare l’emergenza economico sociale e ridefinire le regole del gioco. La legge elettorale deve permettere la formazione di una governance del paese efficace e stabile. Cioè fare di tutto per evitare governi di larghe intese (queste non possono che essere l’eccezione che ogni regola deve prevedere). Significherebbe tornare al proporzionalismo rinnegare il maggioritario. Per questo – lasciando da parte le specificità tecniche – parlare di una legge elettorale sul modello di quella dei sindaci funziona. Fa comprendere che si vogliono rafforzare la capacità di decidere, la stabilità dei governi, la possibilità di scegliere dei cittadini.

Il congresso del PD deve quindi collocare saldamente il partito sul terreno della visione laica e pragmatista della democrazia. Il compito della politica non è quello di costruire nuovi mondi, città future, uomini nuovi, comunità umane che condividono un comune sentire. A questo si è dedicata con discutibili esiti la politica del ‘900!

Il PD è un partito politico di persone che consapevolmente la vogliono superare e che si dà come missione essenziale far funzionare la democrazia cioè governare il paese e le sue relazioni internazionali. Un partito plasmato sul funzionamento delle istituzioni democratiche cioè in primo luogo le elezioni, la selezione e la scelta di coloro che verranno temporaneamente delegati a dirigere le istituzioni della rappresentanza. Ed è un partito consapevole che il rapporto con i cittadini non può attivarsi solo ogni cinque anni con le elezioni ma deve essere un flusso costante fatto di accountability, trasparenza, possibilità di intervento, propensione all’ascolto.

E per questo il congresso dovrà definitivamente propendere per la costruzione di una forma organizzativa in cui le burocrazie di apparato contano meno degli amministratori locali perché questi hanno avuto il consenso dei cittadini e perché la “sovranità” sta nel popolo non nel partito. Un partito di chi ha il consenso della gente e si misura con il governo. Un partito contemporaneamente più “movimento” – strutture leggere e capacità di interloquire con la società – e più “partito di governo” cioè capace di rappresentare e trasformare le istanze sociali in politiche pubbliche. Un’organizzazione a rete che sviluppa una collaborazione competitiva tra questi due livelli (i movimenti sanno che per ottenere risultati devono trovare sbocchi nelle assemblee elettive e gli eletti sanno che la loro stessa elezione dipende dal sostegno dei cittadini) e che trasforma la capacità di rappresentare in scelte di persone o di indirizzi politici attraverso momenti di coinvolgimento ampio (di cittadini non solo gli iscritti, ovviamente), le cosiddette primarie.

 

Mario Rodriguez

 



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