24 luglio 2013

UNA MASCHERA ALLEGRA PER LE NOSTRE VACANZE


Mi piacerebbe allietare gli amici di ArcipelagoMilano che stanno partendo per le vacanze con qualche buona notizia sul fronte dell’economia. Le notizie di questa metà luglio sono cattive: il nuovo declassamento di Standard & Poor, il rialzo degli spread, la nuova stima Bankitalia sulla recessione di quest’anno, assai più grave del previsto. Non sono però queste che impediscono una valutazione ottimistica: se l’economia ripartisse, esse sarebbero rapidamente sconfessate da notizie e previsioni più favorevoli. È l’analisi di fondo sulle radici del ristagno del nostro paese quella che mi rende pessimista e mi fa ritenere che al ritorno dalle vacanze i nostri amici troveranno una situazione ancor peggiore di quella che hanno lasciato.

Le nostre difficoltà hanno due origini, le cui conseguenze si intrecciano. Quella più profonda e più difficile da rimediare riguarda una straordinaria crisi di produttività dell’economia e una altrettanto grave crisi di efficienza del settore pubblico. È una doppia crisi che è venuta montando da lungo tempo, dagli anni ’70 almeno, e i cui effetti sono stati nascosti, prima da processi di inflazione e svalutazione della moneta, e poi da continui disavanzi e di conseguenza dall’accumulazione di un enorme debito pubblico. Quando, con l’ingresso nell’Euro, tutto ciò non fu più possibile, la crescita si interruppe e divenne recessione aperta dopo la crisi finanziaria americana del 2008, rapidamente estesasi in Europa. Sottolineo che inflazione e disavanzi, oltre ai loro cattivi effetti economici, hanno avuto un pessimo effetto sociale: che i cittadini non si sono resi conto di stare vivendo al di sopra dei livelli di benessere sostenuti dalla produttività e dall’efficienza della loro economia e delle loro pubbliche amministrazioni, e ancora non se ne rendono conto adesso.

La seconda origine riguarda la rivoluzione negli strumenti di politica economica tramite i quali una crisi può essere contrastata. Entrando nell’Euro sapevamo benissimo che perdevamo la possibilità di attuare una politica monetaria e di cambio autonome: anzi, questo era uno dei motivi per cui decidemmo di entrare, visto il cattivo uso che di quell’autonomia avevamo fatto. Così decidendo, però, affidavamo interamente la nostra competitività a quelle riforme strutturali che non eravamo stati in grado di fare in precedenza: riforme nel sistema pensionistico, nel mercato del lavoro, nell’efficienza della pubblica amministrazione, nella scuola e nell’Università, e soprattutto interventi che stimolassero la produttività delle imprese, perché acquistare competitività mediante svalutazione unilaterale della moneta non sarebbe stato più possibile. Finché la situazione internazionale si mantenne favorevole, fino alla crisi americana del 2007-2008, le cose andarono mediocremente ma senza crolli: riforme della radicalità necessaria a invertire il ristagno della produttività e della competitività non vennero fatte per il loro elevato costo politico e il debito pubblico venne solo scalfito, ma l’Euro ne consentiva allora il finanziamento a tassi di interesse ridotti. Dopo di allora i capitali si resero conto che l’essere parte della zona Euro non metteva gli investimenti finanziari nei titoli delle nostre banche e del nostro debito pubblico al riparo da un possibile default, se il debito continuava ad aumentare e la nostra economia si rifiutava di crescere. E si resero anche conto, in particolare dopo la crisi greca, che la disponibilità dell’Unione Europea e della Banca centrale a fornirci aiuto in caso di un attacco speculativo erano limitate e strettamente condizionate.

È la situazione in cui siamo oggi e di cui tratto in un lungo articolo che uscirà nel prossimo numero de Il Mulino. Detto in soldoni, la nostra economia si trova e si troverà per un lungo periodo, fino a quando non verranno fatte e avranno effetto riforme strutturali che ne riattivino la competitività, in una situazione di semi-asfissia: solo una parte limitata delle nostre imprese, insufficiente a sostenere piena occupazione e sviluppo, è competitiva se continuiamo a restare nell’Euro. In altri tempi avremmo svalutato, ma ciò è ora impossibile: in caso di default dall’asfissia passeremmo alla catastrofe, evento che non è da escludere, ma le cui conseguenze sarebbero traumatiche. È questa amara verità che i nostri politici si rifiutano di dire ai cittadini: che siamo più poveri di quanto pensiamo di essere – illusi dai debiti del passato – e che l’asfissia attuale o l’eventuale catastrofe futura, con la svalutazione che ne conseguirebbe, non fanno o farebbero che registrare le occasioni mancate in un lungo passato, la perdita delle grandi imprese, la scarsa produttività di buona parte delle piccole, l’inefficienza di molti comparti del settore pubblico, e l’incapacità della politica di scegliere una strategia dura e realistica. Inutile aspettarsi un soccorso generoso da parte delle autorità dell’Eurozona, soccorso che potrebbe arrivare solo nel caso che i paesi ricchi del Nord si decidessero a compiere un salto decisivo verso un’Europa federale: le prossime elezioni tedesche, chiunque le vinca, non faranno che confermare la strategia sinora adottata dalla signora Merkel, too little, too late. E d’altronde perché sperare che i paesi del Nord Europa abbiano verso gli italiani un atteggiamento più generoso di quello che i molti italiani del Nord sedotti dalla Lega hanno verso gli italiani del Sud?

Sul piano dell’economia reale mi aspetto allora, al ritorno delle vacanze, il permanere o l’aggravarsi di una forte disoccupazione e il perdurare della moria delle imprese meno efficienti: spero soltanto che le riforme promesse nel sistema bancario siano in grado di aiutare le imprese in difficoltà ma potenzialmente in grado di farcela. Sul piano della finanza pubblica c’è poco da rallegrarsi per aver evitato la procedura di infrazione: a disavanzi superiori al 3% torneremo rapidamente col rifinanziamento della Cassa integrazione, il pacchetto lavoro e il rinvio di IMU e Iva, tutte misure di breve respiro. Solo un drastico riaggiustamento del nostro sistema fiscale a favore delle imprese e del lavoro, e insieme un blocco dei redditi – una vera svalutazione interna – forse ci consentirebbe di sforare il tetto del 3% senza conseguenze troppo gravi, perché sia Bruxelles che i mercati si renderebbero conto che vogliamo affrontare alcuni dei veri problemi che bloccano la nostra crescita. Ma per imporre questo occorre una strategia politica ed economica che il governo Letta non sembra in grado di esprimere.

Nel frattempo, il problema di cui si discute è che cosa deciderà la Corte di Cassazione il 30 luglio: “allegria!” avrebbe detto il grande filosofo Mike Bongiorno.

 

Michele Salvati

 



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