24 luglio 2013

la posta dei lettori_24.07.2013


Scrive Roberta Caccialupi a Paolo Mottana – Anch’io sono costretta a passarci tutte le mie giornate, nella parte di Bicocca che volge più al grigio. Nei giorni d’inverno, quando anche il cielo è incolore e gli alberi nudi, sembra di vivere in un mondo in bianco e nero.

Scrive Paola Ovatini a Paolo Mottana – Vorrei esprimere al professor Mottana il mio, per quanto inutile, più totale consenso. Sono inorridita, a suo tempo, nel veder sorgere un intero quartiere che ricordava le architetture dei Soviet, quelle per il proletariato, e inorridisco continuamente di fronte alla pochezza di idee degli archistar (orribile fusione di due parole che dovrebbero avere luoghi e funzioni diversificate) in generale, ma pare particolarmente a Milano. Perché non partire con una rivolta contro il brutto, perché non chiamare i cittadini a segnalare quotidianamente gli scempi, perché non smetterla con la insensata valorizzazione di architetti, designer, installatori di “opere” che costano fior di soldi alla comunità senza apportare neppure il beneficio di qualcosa di bello su cui poggiare gli occhi? Chissà, magari indire una grande assemblea degli studenti della Bicocca, in carne ed ossa, non virtuali, aprire i loro occhi e le loro menti obnubilate e assuefatte mostrando la bruttezza in cui vivono e il bello in cui avrebbero potuto vivere con delle scelte diverse potrebbe anche accendere in qualcuno una fiammella, un’intuizione: se partecipare volesse davvero dire essere liberi?

Scrive Tiziana Gatti a Massimo Cingolani – Sono d’accordo con la proposta di Cingolani, immagino i paletti che verranno innalzati in un Paese dove anche le coppie etero non regolarizzate da contratto matrimoniale in Chiesa o Comune trovano difficoltà persino ad assistere il proprio partner in ospedale. Non é il matrimonio ne la combinazione tra i sessi che fa di una coppia un’unione a tutti gli effetti ma, forse , qualcosa che va oltre un contratto scritto.

Scrive Riccardo Gorini a Giovanni Cominelli – La preziosa analisi di partenza può essere più o meno completa e condivisa come la difficoltà della stessa giustifica, ma forse è più importante progredire accordandosi sul fatto che quello che conta è come uscire dall’attuale situazione. Rinchiudersi nella dimensione rancorosa privata, localistica, da piccola patria probabilmente non è mai stata una soluzione: chi aveva dei dubbi non ha che da guardare ai risultati pratici di quanti hanno proposto questo approccio: ma sfuggire nel riprendere ad “amare il prossimo” non mi sembra esattamente un programma di azione destinato a produrre risultai concreti.

Le radici della situazione italiana sono forse meglio precisabili di un tale approccio indeterminato: gli strumenti attraverso i quali tentarne una risoluzione anche: forse quello che serve sono analisi magari limitate ma precise sulle radici del disastro, con proposte forse soggettive ma precise. Credo che chi opera nella realtà locale è costretto ad identificare quasi quotidianamente le ragioni delle difficoltà. Questi primi due passi mi sembrano i due primi passi facili: quello che mi sembra difficile è raggiungere un consenso su come cambiare che sia diverso da quello che mi pare sia in marcia da molto tempo.

Quello che da molto tempo accade è che i problemi non affrontati si aggravano fino a quando implodono: e a quel punto si ha una soluzione, magari insoddisfacente ma chiara di fronte alla quale si è costretti a prender posizione. Per fare un esempio un’azienda mal condotta perde competitività, la sua capacità di innovazione si riduce, i suoi disfunzionamenti sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono darsi la pena di misurarli, inizialmente erode il suo vantaggio competitivo, quel vantaggio  che l’aveva resa prospera, sostenibile nel tempo se non si fosse degradato: arriva il giorno in cui i conti non consentono di andare avanti. Tutti a casa: tutti costretti, anziché proseguire nei vecchi errori, a nuotare in un mare nuovo. Naturalmente un mare doloroso, dove molto spesso saranno andati sprecati sacrifici e buona volontà di molte parti.

In ogni settore c’è la possibilità di misurare quello che accade, soggettivamente: la valutazione soggettiva è limitata, ma forse non così esiziale come l’assenza di valutazioni. La valutazione che alla fine viene adottata contiene implicitamente la strategia di risoluzione: se quest’ultima è sbagliata, i risultati lo indicano. Il primo confine di valutazioni dei meriti è quello che divide quelli acquisiti risolvendo il problema sul quale si è lavorato, da quelli che questo confine non possono dire di aver varcato. Certo vi possono essere freni indebiti nel trattamento di un problema, ma, se vi sono freni indebiti, questi sono identificabili, se chi ne ha il potere non è prigioniero di logiche che non mirano alla soluzione del problema.

Insomma solo il volere della maggioranza, o l’incapacità delle minoranze, è in ultima analisi la causa del disagio che da quaranta anni per mia percezione soggettiva si aggrava. L’esperienza del passato mi sembra dire che anche in assenza di rimedi la soluzione arriva perché il doloroso equilibrio si rompe con la fine delle riserve accumulate in precedenza: forse  succederà nuovamente che  in assenza di rimedi la paziente analisi e risoluzione dei problemi verrà sostituita da ricette generiche come in un non troppo lontano calamitoso passato.

 



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