17 luglio 2013

PROVINCE: BASTA (SOPPRIMERE) LA PAROLA?


Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (*): la rosa (la cosa n.d.r) che era resta solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi. Vale anche per la ventilata e reiterata idea di abolire le province? A ben guardare il disegno di legge del governo Letta parrebbe di sì visto che, in tre semplici articoli, si riduce a cancellare la parole “province” da tutti i commi della sempre più traballante, ma tuttora vigente, Costituzione. Ma, tolto il nome, che ne è della cosa? La risposta è naturalmente rinviata, posto che se ne dovrebbero occupare comitato dei saggi e commissione bicamerale. E intanto, dovendosi superare la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, con i tempi che corrono il rischio di ritrovarsi con l’ennesimo annuncio, lanciato per cercare di sedare un’opinione pubblica sempre più delusa ed esasperata, pare evidente.

Qualora si volesse invece fare sul serio si dovrebbe, anziché agitare lo specchietto per allodole della “abolizione” (per altro sbagliata perché destinata ad accrescere i centralismi regionali da un lato e l’anarchia municipale dall’altro), seguire la strada più lineare della legge ordinaria, evitando sia la sfortunata scorciatoia del decreto-legge, sia le tortuosità della modifica costituzionale. Basterebbe allora correggere il testo del governo Monti, cui va comunque riconosciuto il merito di aver smosso le acque mediante un’evidente forzatura, tenendo conto ovviamente dei rilievi della Corte Costituzionale. Dunque si agli accorpamenti e alla riduzione, non abolizione, delle Province; no all’elezione indiretta dei relativi organi politici. Un disegno di legge ordinaria, a Costituzione invariata, così impostata avrebbe allora reso credibile l’appello al Parlamento di Enrico Letta per “fare presto”!

Altra novità, purtroppo non positiva, del citato ddl governativo riguarda le povere Città Metropolitane. Esse infatti, al pari delle Province, vengono soppresse dall’art. 114, quello stesso che le definisce enti “costitutivi” della Repubblica, intermedi tra Comuni e Regioni, in una logica di sussidiarietà verticale, adeguatezza e differenziazione, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 118. Le Città Metropolitane conserverebbero comunque un rilievo costituzionale in quanto “ente di governo delle aree metropolitane”. Tuttavia funzioni, modalità di finanziamento e ordinamento vengono ancora una volta rinviate. Lasciandoci nel dubbio: le città metropolitane sorgerebbero allora come “enti intermedi” tra comuni e regioni (lasciando quindi tutti gli altri comuni non ricompresi nelle rispettive aree orfani delle abolite province!) oppure diverranno mega-comuni, accrescendo pertanto il gigantismo dei capoluoghi ovvero assorbendo tutti gli altri comuni dell’area? O, più verosimilmente, non essendo più “costitutivi” potranno essere dotati di organi politici di secondo livello, dunque nuovi inutili e inconcludenti “tavoli” tra Sindaci, privi di ogni autorevolezza e legittimazione?

Ci si sarebbe aspettato qualche lume al riguardo dall’incontro celebrato dal PD il 1° luglio a Palazzo Isimbardi, allorché – invertendo un pluriennale scetticismo – si è udita una corale invocazione per la città metropolitana subito! Una buona dozzina di deputati, sindaci e assessori, alla presenza del ministro Del Rio, ne hanno caldeggiato l’istituzione senza rinvii il 1° gennaio 2014. Il ministro ha confermato la scadenza avvertendo tuttavia i milanesi (e indirettamente tutte le altre “metropoli” interessate) di non aspettarsi “da Roma” tutte le dritte necessarie. Persino in Germania, paese ordinato e disciplinato – è stato il suo ammonimento – ogni città metropolitana si è costruita per iniziativa e realizzazione da parte di ogni singola realtà, sulla base delle specifiche caratteristiche ed esigenze! La classe politica locale deve dunque fare la sua parte, senza aspettare di essere imboccata dal centro.

E qui viene il bello: si tratterebbe infatti di riscattare in pochi mesi decenni di letargo e indifferenza: in un solo corso di recupero estivo svolgere insieme i programmi di elementari medie e università! Non che manchino i testi da cui apprendere. Sociologi e urbanisti hanno spianato la strada: gli studi di Guido Martinotti e di Giuseppe Boatti, ad esempio, hanno definito chiaramente i termini del problema sotto il profilo teorico e sperimentale. Altre consulenze e supporti tecnico-burocratici risultano pertanto secondari e collaterali. Occorrono invece decisioni prettamente politiche. Primo: dove inizia e dove finisce l’area metropolitana? A sud c’è il parco agricolo ma a nord c’è la città infinita; è sensato porre il confine al Bettolino Freddo di Cologno Monzese o alla Parpagliona di Sesto San Giovanni? Secondo: cosa deve fare la città metropolitana? Territorio, mobilità e ambiente: ma allora che senso ha che l’attuale comune di Milano (e ciascun altro dei circa quattrocento comuni dell’area) approvino un proprio piano di governo del territorio nonché un proprio piano urbano del traffico, ecc.? Terzo: quali enti sopprimere e sostituire: solo la provincia di Milano o anche quella di Monza? E lo stesso comune di Milano una volta che sia stato ripartito in autonome Municipalità?

Ecco perché a Milano, fin tanto che sopravvive questa generazione politico-amministrativa non se ne farà nulla. Non perché manchino leggi e decreti, direttive e circolari, studi e documentazioni ma perché manca la minima capacità e volontà politica di mettere mano a posizioni di potere consolidate e interessi costituiti, ancorché sempre più anacronistici e difformi rispetto agli affermati standard europei. Col rischio purtroppo di illudere e deludere, come per le altre mitiche “riforme” promesse e mai mantenute, anche i cittadini più pazienti, responsabili e consapevoli.

 

Valentino Ballabio

 

 

(*) U. Eco,”Il nome della rosa“, ultima pagina.



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