17 luglio 2013

L’UNIVERSITÀ PIÙ BRUTTA DEL MONDO


Nessuno più si stupisce che le università contemporanee non abbiano alcuna pretesa estetica né che tentino anche soltanto lontanamente di evocare lo stile medievale o gotico dei grandi college inglesi o delle nostri atenei bolognesi o padovani. Non sia mai. Dopo l’esperimento urbinate, che ha ricavato le aule universitarie rispettando i contenitori medievali in un’opera dell’architetto Giancarlo De Carlo che merita tutto il rispetto possibile, lentamente l’architettura industriale (cubi e cubi di cemento con poche fenditure per il respiro) ha preso il sopravvento ma, indubbiamente, negli ultimi anni ha raggiunto limiti di orrore non più sopportabili. È vero che siamo nell’epoca del “mostruoso”, come da molto tempo si osserva e come ha incisivamente affermato Peter Sloterdijk, e tuttavia per uno che, come me, insegna in un luogo come l’università di Milano Bicocca, ogni giorno è amarissimo nel dover constatare che davvero non c’è limite alla bruttezza.

Le enormi scatole coloro amaranto che troneggiano nel deserto di cemento e pochi alberi strangolati nella periferia nord di Milano, è uno de paesaggi che meno faccia pensare all’idea di campus anglosassone ma anche di ateneo come luogo della bellezza e della conoscenza dalle remote origini classiche che un’università forse dovrebbe ancora essere. Uno spazio del tutto anonimo, squadrato, radicalmente sensuo e sessuofobico (non esistono praticamente linee curve!), deterso accuratamente da ogni traccia di natura che non sia altrettanto devotamente martirizzata e incarcerata, ribadito negli interni da spazi schiacciati e ortogonali, file di celle e di camere sterili che evocano tanto il carcere quanto il peggior ospedale, le finestre che si aprono sui cubi sono inferriate con griglie a croce che simboleggiano atrocemente la vocazione di colombaio funesto; tutto questo delinea bene l’epifania del mostruoso nell’architettura universitaria.

Nell’anestesia generale tutto ciò non suscita più alcuno scandalo e davvero ciò appare incredibile (taluni arrivano pure a elogiare questo aborto della ubris contemporanea). A me pare doveroso denunciare questa ingiuria al possibile, dal momento che il possibile avrebbe consentito (anche solo ad accogliere qualcuno dei numerosi altri progetti presentati a suo tempo per il bando Bicocca ben più soddisfacenti sotto ogni profilo) di realizzare l’idea di “campus” secondo ispirazioni benedette e ispirate da divinità meno belluine di quelle titanesche e accecate che invece purtroppo hanno congiurato ai nostri danni. Il patimento che ne deriva è indubitabile benché talora subliminale dacché molti, e troppo spesso gli studenti stessi, siano ormai adusi a essere violentati da forme di sevizie estetiche e esperienziali, specie negli spazi metropolitani, tali da emergerne alla fine beotamente insensibili. Ma il malessere è patente, non foss’altro negli smarrimenti continui nei corridoi nei quali nessuno segno di ornamento o di stile distoglie dalla ipnosi progressiva e ben più drammaticamente all’esterno, nel cemento integrale, spesso fatto bianco affinché d’estate accechi e ulceri il passante, o nelle panchine esse stesse di cemento e senz’ombra affinché le natiche ne possano essere cotte e abrase.

Lo sguardo non conosce riposo e il passo mai un nascondimento perché la consegna del gigantesco non prevede restringimenti, porticati, anse o curve. Le ridicole fontane che troneggiano al centro dell’enorme vergogna, dopo pochi giorni trasudano un liquido indefinibile che si raccoglie in piscine dalla putrescente striatura marrone. Nella piazza (sic) sprofondata, ché vi si dovrebbe accedere e recedere mediante delle enormi scale mobili peraltro perennemente guaste (cosicché occorre poi scendere e salire goffamente su scalini giganti e metallici), agonizzanti erbe che hanno della zizzania crescono in riquadri simmetrici (come tutto!) ma sagomate in maniera che nessuno possa approfittare anche di quei ritagli miseri di verzura.

Le greggi di giovani studenti, uniche creature viventi che si vedano in tal luogo peraltro per molti anni privo di qualsiasi servizio essenziale (per passare sotto silenzio l’infinita inclemenza dei raccordi con il resto della città e dei sobborghi, cioè a dire l’accesso, solo dopo quindici anni giunta a una qualche compatibilità con il minimo necessario), sciamano esauste in questo paesaggio inospitale e infido.

Come è accaduto tutto questo? Chi è il responsabile di questo orrore? Forse l’amministrazione, gli attori adunati di questo progetto criminoso, l’industria, l’ateneo, il comune. Forse il perfido architetto che ebbe anche l’ardire delirante di evocare presunte ascendenze rinascimentali e ancora velleità improvvide di imitare, secondo ben incerte ascendenze estetiche, le antiche officine. Un personaggio cotale, colui che ha costruito il quartiere Zen di Palermo -e che non si perita di affermare che, essendo quello un quartiere “pensato” per il proletariato, egli non vi abiterebbe-, che non meriterebbe neppure di essere annoverato nelle liste dei peggior geometri del pianeta. Vorrei replicargli che anch’io, in un “campus” pensato per mettervi a dimora i condannati dell’ultimo girone infernale, neppure in figura vorrei essere chiamato a incarnare il mio compito d’insegnante. E invece.

E invece ogni giorno debbo approdarvi. Debbo sopportarne l’insolenza e l’inedia, l’assoluta mancanza di amore, di cura e di anima che sempre più è pero lo stemma di questo nostro tempo furioso e del tutto manco di ogni consapevolezza del senso e dello stile. Debbo quindi infine immaginare che siamo ben noi i colpevoli di tutto questo, noi che lo accettiamo, noi che non siamo più sensibili al suo crimine, alla sua tossicità, noi che chiniamo la testa e pensiamo solo a un successo che tuttavia non ha più neppure un degno teatro dove andare in scena. La casa del sapere poteva essere un giardino, un tempio, un colonnato, un fabbricato gotico in un reticolo di alberi centenari, a ricordare l’impegno a fare del nostro sguardo uno “sguardo secondo natura”. Più nulla di tutto questo, neppure la fantasia di qualche invenzione futuribile, di qualche universo plurale e multiplo, colorato e vivo, come certe preziose architetture mai adottate qui in Italia ma in luoghi lontani e esotici talora sembrano adombrare.

Solo il deserto che ci meritiamo, evidentemente, deserto di cemento, degna e definitiva sepoltura dell’università contemporanea, sempre più irriconoscibile, votata a farsi complice dell’assassinio della cultura, della riflessione, del silenzio, della creazione, in cambio del mestissimo onore di essere accolta nella casta dannata dei soci in azioni del prossimo disastro. Perché è di questo che infine che si tratta. È di questo che una tale università è incarnazione: nei suoi muri, nelle sue materie, nelle sue forme, nella sua localizzazione urbanistica che vede gli spazi del sapere sempre più isolati e confinati dalla vita delle città.

È nei suoi rigidi corridoi, nelle sue rigide separazioni, nei suoi rigidi e infernali cortili, nel reticolo ortogonale delle sue strutture, nell’odio evidente per ogni forma di vita e per la natura, nel respingimento assoluto di qualsiasi cosa possa evocare il codice femminile o quello notturno della vita e delle cose. È in tutto questo che l’università più brutta del mondo riassume in maniera compiuta, tragicamente emblematica, lo stato delle cose. E lo stato delle cose è fonte di un’angoscia insostenibile.

 

Paolo Mottana

 



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