17 luglio 2013

L’INVERNO DEL NOSTRO SCONTENTO


Better Life, il Rapporto dell’OCSE – l’Organizzazione mondiale che associa i 36 Paesi più sviluppati al mondo – che monitora periodicamente la F.I.L (Felicità Interna Lorda) dei Paesi, conferma che gli italiani sono al di sotto della media OCSE per soddisfazione della vita. Sì, siamo scontenti, fino a reazioni estreme di fronte a un sorpasso, a uno sgarbo, a un conflitto sentimentale, a un contenzioso di condominio. Sotto l’apparente normalità, scorrono il rancore, la rabbia, la frustrazione. Nervosi, schizzati, intolleranti: così percepiamo il prossimo e viceversa.

Qual è l’oggetto di questo lungo “inverno del nostro scontento”, espressione che lo scrittore statunitense John Steinbeck prese a prestito dal Riccardo III di Shakespeare per dare un titolo al suo famoso romanzo del 1961 sulle dinamiche sociali della provincia americana degli anni ’50? Siamo scontenti di essere italiani. Il fatto è che siamo stati messi insieme male. Vengono ora al pettine, negli sconvolgimenti culturali ed economici della globalizzazione, i nodi di un’unità statale-nazionale mal costruita. Altri Paesi europei stanno reggendo molto meglio il passaggio dagli Stati nazionali alle entità sovranazionali. Noi no. La crisi dello Stato nazionale sta producendo un’implosione civile e etica.

È la storia d’Italia che presenta ora il conto. Su un’Italia spezzata nel 568 d. C. dall’invasione longobarda e poi da quelle successive, divisa per milletrecento anni in piccole comunità politiche statali, le ristrettissime élites liberali dell’Ottocento hanno battuto il maglio del modello centralistico napoleonico, che in Italia era quello piemontese e borbonico. E poiché l’egemonia liberale era troppo fragile per la moral suasion di un popolo contadino e analfabeta, decisero di sottometterlo, usando l’esercito e l’amministrazione. Non con lo Stato politico quale libero accordo federale di piccole comunità micro-statali – come proponevano Gioberti, Rosmini e Cattaneo – ma con lo Stato amministrativo. Questo riuscì a fare l’Italia, non gli Italiani.

Questo Stato è cresciuto in modo tumorale nel corso di 150 anni, si è formata al suo interno una classe dirigente amministrativa, con un’amplissima base di massa, che è riuscita a piegare la politica, l’economia, la società ai propri interessi di classe. Essa è la vera struttura di governo del Paese. Costosa, inefficiente, corrotta, riprodottasi attraverso più di 700.000 leggi, decreti, regolamenti, circolari, essa vigila e rapina come Ghino di Tacco sui confini tra economia, società e politica. Dietro queste sbarre la società e gli individui vivono reazioni di claustrofobia aggressiva come animali in cattività. Paesaggi umani da socialismo reale.

Molti opinionisti politically iper-correct rimandano al basso tasso di sviluppo e alla disoccupazione quali cause dell’infelicità diffusa. Ma questi dati sono comuni a quasi tutti i Paesi sviluppati. La specificità italiana è che lo Stato e la politica sono concause della crisi. Tuttavia quella dello scontento italiano non è una cattiva notizia. Perché falsifica un pregiudizio largamente diffuso in Italia e all’estero, secondo il quale gli italiani sono cinici, menefreghisti, familisti amorali. In realtà, la gran parte di loro fa fatica a rassegnarsi a questa Italia, che pure è il frutto della loro storia e delle loro vite. Di qui parte il bivio: tra chi si rinchiude nella dimensione rancorosa privata, localistica, da piccola patria e chi riprende ad “amare il prossimo”.

Come scrisse Papa Montini: “la politica è la più alta forma di carità”. E chissà che uno Shakespeare redivivo non possa annunciarci: “Ormai l’inverno del nostro scontento/s’è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York“.

 

Giovanni Cominelli

 



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