17 luglio 2013

libri – LE RADICI NELLA SABBIA


MARCO AIME

LE RADICI NELLA SABBIA. VIAGGIO IN MALI E BURKINA FASO

EDT, 2013,

pp. 192, € 12,00

Nello scorso gennaio l’intervento francese restituiva al governo del Mali il controllo delle regioni settentrionali, da nove mesi in mano ai fondamentalisti islamici di Ansar-ed-Dine. Purtroppo, come quasi sempre accade nel nostro Paese di fronte alle vicende dell’Africa, questi fatti hanno offerto un pretesto ai soliti riflessi condizionati e alle solite dichiarazioni di schieramento (tipo “difesa della libertà” da una parte, “intervento neocolonialistico” dall’altra) che servono soltanto a confermarci in antiche, ideologiche certezze, mentre non sono di alcun aiuto per capire cosa stia succedendo in un’area del mondo fondamentale anche per la nostra vecchia Europa. Come al solito noi, quando non dedichiamo all’Africa scarsa attenzione, ne “leggiamo” le vicende in chiave strumentale alle nostre dialettiche eurocentriche.

Invece, per capire l’Africa dobbiamo metterci “in viaggio”, accantonando i vecchi pregiudizi e disponendoci a coglierne la ricchezza delle tradizioni, e anche le contraddizioni che scaturiscono dall’incontro di queste con la modernità. Un viaggio costituisce, appunto, la trama attraverso cui Marco Aime, antropologo e profondo conoscitore dell’Africa, ci accompagna all’incontro con due tra i paesi più poveri ed emblematici del Sahel: Mali e Burkina Faso. “Sahel”: in arabo “sponda”. Una sponda mobile, un limite che arretra di fronte al “gran mare di sabbia”, a quelle distese aride del Sahara che continuano ad avanzare sospinte dal cambiamento climatico. Una terra ancora oggi teatro del millenario incontro-scontro tra nomadi e sedentari, tra pastori e agricoltori. Una terra di “genti in cammino”, anche se legate a profonde tradizioni.

Le radici nella sabbia è il titolo, evocativo di questa realtà, di un testo agile e allo stesso tempo denso, che in questi giorni EDT ripropone – scelta quanto mai opportuna – in una nuova edizione. La prima era del lontano 1999, quando a uno sguardo superficiale l’Africa poteva ancora apparire ai margini della globalizzazione, quando solo gli occhi di un osservatore attento potevano cogliere i primi sintomi della “invasione cinese”, quando il “land grabbing“, l’accaparramento delle terre, non si era ancora dispiegato nella sua pervasività predatoria. Quando nella vasta fascia tra Sahel e Sahara non si era ancora saldata la galassia di movimenti e conflitti locali che ha reso ormai esplosiva l’instabilità di quest’area, ben al di là dei confini del Mali.

Per questo il libro si presenta arricchito di una corposa postfazione che, senza aver la pretesa di costituire un organico aggiornamento, vuole piuttosto proporre momenti di rivisitazione che diano il senso dei mutamenti da allora avvenuti – “mutamenti che non sempre significano miglioramenti“, premette l’autore. Ma anche le pagine scritte allora sono quanto mai attuali. Perché, lungi dall’imbastire un resoconto di taglio tradizionalmente “antropologico”, l’attenzione di Aime è rivolta soprattutto a cogliere un mondo in trasformazione che si trova a fronteggiare un’ardua scommessa: come entrare nella modernità senza rinunciare all’essenza delle antiche tradizioni, dell’antico universo simbolico e valoriale che della cultura africana è fondamento e originalità.

Al di fuori degli stereotipi del viaggio esotico, Aime ci porta a constatare come la realtà cambi “anche in questo che consideriamo un dettaglio di un mondo e che ci piace pensare legato a tradizioni eterne. Un pensiero sottilmente razzista che, immaginandoli ingessati e succubi di regole ancestrali, nega agli altri la capacità di ‘fare storia’”. Mentre, con le parole del grande intellettuale maliano Amadou Hampâté Bâ “la tradizione è come un albero, c’è il tronco e ci sono anche i rami. I rami devono essere sfrondati”.

Così la discesa in pinassa dell’alto corso del Niger verso la mitica Timbuctù, è interrotta da approdi che sono occasione di incontro con esperienze significative di cooperazione “dal basso”, auto-organizzata. In un’Africa che “è un cimitero di progetti” la via da seguire è forse quella di uno “sviluppo durevole” in cui è la comunità stessa che “deve farsi carico del progetto”. Come pure il cammino ai piedi della falesia di Bandiagara fa emergere una realtà il cui il popolo Dogon non appare solo portatore di antiche cosmogonie che ne impregnerebbero tutte le manifestazioni di vita. Anche qui una realtà in movimento, molto più dinamica e complessa: a più di cinquant’anni dal Dio d’acqua di Griaule, l’inaridirsi dei suoli porta a nuove forme di coltivazione, che restringono gli spazi della secolare agricoltura comunitaria e mettono in crisi le gerarchie sociali, mentre migliaia di giovani emigrano e si convertono all’Islam.

La tradizione torna a farsi sentire nella sua grandezza e fragilità a Timbuctù, testimonianza di un’antica storia, fatta di imperi civilissimi – dal Ghana al Mali al Sonrhaï – e di raffinati centri culturali. La mitica città, dopo avere attirato per secoli avventurieri col miraggio dell’oro, si è oggi ridotta a una sorta di “porto” ai margini del mare di sabbia, tanto da far dire a Chatwin: “Esistono due Timbuctù: una mentale e una reale”. Tutte e due da salvare, aggiunge Aime, perché questo “scrigno di sabbia” “conserva una storia che non è solo della città, ma di tutti noi”. Leggendo le pagine dedicate a Timbuctù il pensiero corre alle moschee, ai santuari e alle biblioteche su cui si era scatenata pochi mesi fa la furia iconoclasta degli jihadisti, con una radicale rottura nei confronti della secolare contaminazione con le religioni tradizionali che aveva caratterizzato la penetrazione islamica in Africa, attraverso “processi continui di mediazione e negoziazione” e “logiche meticce”, tanto da far parlare di un “Islam nero”. In realtà – dice Amadou Hampâté Bâ – “in Africa l’Islam non ha più colore di quanto ne abbia l’acqua e questo spiega il suo successo: si colora delle tinte del territorio e delle pietre”.

Ma allora, perché il fondamentalismo islamico ha avuto buon gioco a dilagare nel nord del Mali? La ricostruzione che Aime ci propone – e completa nella postfazione – della “questione tuareg” ci aiuta a capire come problemi presenti da decenni e per decenni lasciati irrisolti abbiano portato alla situazione attuale. Da una parte i tuareg in lotta per l’indipendenza e/o “una pari opportunità di tipo economico”, in una sequela interminabile di conflitti, tregue, paci effimere, promesse mancate che ha punteggiato la storia degli stati saheliani dall’indipendenza ai nostri giorni. Dall’altra l’avanzata dell’Islam wahabita – a scapito di un Islam tollerante – attraverso scuole coraniche e moschee finanziate dai sauditi. Infine l’ultima guerra, col saldarsi momentaneo di un’alleanza precaria e segnata da profonde contraddizioni, tra jihadisti e indipendentisti tuareg.

La riflessione conclusiva trae spunto da Thomas Sankara “giovane capitano salito al potere in Burkina Faso con un colpo di stato incruento”, figura che è ancora per milioni di africani un simbolo di riscatto da una condizione di inferiorità, di miseria, di umiliazione. Un modello di dignità, integrità e rettitudine contro la subordinazione corrotta di troppe élite politiche del continente. Una strada che, pur con tutte le ingenuità di un fresco idealismo, poteva forse essere decisiva per l’Africa, non fu capita, fu anzi ritenuta una minaccia. E così “il 15 ottobre 1987 una raffica di mitra mise fine all’avventura di Thomas Sankara”.

“La ricchezza, lo sviluppo si misurano altrove in forma di percentuali, di quintali d’acciaio per abitante, di tonnellate di cemento, di linee telefoniche. Noi abbiamo altri valori. Noi non abbiamo nessun complesso a dire che siamo un paese povero”. Le parole di Sankara contrappongono alla nostra “religione dello sviluppo” l’esperienza delle popolazioni del Sahel che per millenni, grazie a strategie “leggere”, hanno “saputo sopravvivere sfuggendo alle persecuzioni del clima”. Queste popolazioni “sono un modello di leggerezza e le loro società sono fondate su di un investimento minimo […] che ha permesso loro di sopravvivere”. Un circolo virtuoso che si è interrotto “a partire dall’epoca coloniale”, quando “le economie saheliane sono divenute dipendenti dall’economia metropolitana. […] Appesantito da questo fardello e da una pressione demografica in continuo aumento, il Sahel è crollato, spezzandosi in mille frantumi”.

Una vicenda in cui ritroviamo molto della crisi profonda in cui si dibatte il nostro mondo sviluppato. “Sarà possibile ricomporre il mosaico?” si chiede Aime alla fine del suo viaggio. Forse il mosaico è molto più esteso e complicato delle piane semiaride del Sahel, e per ricomporlo dovremo umilmente andare a scuola di “leggerezza” dagli “ultimi” della Terra.

(Marco Di Marco)

 

 

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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