3 luglio 2013

MILANO: LO SVILUPPO FATTO CON I FICHI SECCHI


Non mi pare che la città si stia appassionando alla partita iniziata con il governo con in palio l’autonomia fiscale di Milano. Il profilo basso, mediaticamente parlando, non aiuta la mobilitazione, ma dire che tanto la società politica quanto quella civile milanese sono al momento poco più che spettatori disattenti rispetto a questa battaglia mi sembra una constatazione più che un giudizio. Può forse servire esplicitare in concreto qual è la posta in gioco per capire quanto si sia lontani dal surreale dibattito sul federalismo degli scorsi anni, quello che ha prodotto la maggiore centralizzazione nel minor spazio temporale che si ricordi.

L’avere la possibilità di disporre dell’intero gettito dell’Imposta Municipale unica nel 2012 avrebbe significato avere altri 230/250 milioni di euro, più o meno il disavanzo residuo di bilancio che contabilmente è oggi coperto da una manovra fiscale su Irpef e prima casa che tutti consideriamo insostenibile prima di tutto da un punto di vista della correttezza dei rapporti con i cittadini. L’eliminazione dell’incomprensibile 0,32 per il Governo nazionale sulla Tares, la tassa che dovrebbe coprire i costi dei servizi municipali, è prima di tutto l’eliminazione di una palese presa in giro del cittadino contribuente cui viene chiesta una ulteriore somma senza nemmeno preoccuparsi di trovare una motivazione minimamente spendibile.

Ma il punto vero è che dare la possibilità a un governo cittadino di disporre di poco più di due punti di gettito fiscale (per fare un paragone, Helsinki dispone di 18 punti di fiscalità e gestisce la sanità e pochi servizi in più) potendo deciderne modulazione e graduazione è il solo modo, ai nostri giorni, di avere un sistema di rappresentanza e finanziamento del sistema pubblico equo e democratico. Inseguendo la meta del “no taxation without representation” il nostro sistema istituzionale imbarbarito è riuscito a produrre a livello nazionale una classica e feudale “taxation without representation” mentre a livello comunale si è in preda ad una inedita “representation without taxation“. Possibile che Milano si rassegni a questa carnevalata istituzionalizzata?

Parlare come abbiamo fatto di deroga o revisione del patto di stabilità interno per “fare Expo” è stato probabilmente un errore perché si è ingenerata la sensazione che Milano chiedesse qualcosa e il governo dovesse “concederla”. Sarebbe forse stato meglio dire senza troppi giri di parole che il “patto di stabilità” interno inventato da Tremonti con il governo Berlusconi è un altro degli strumenti della finanza creativa e degli equilibrismi contabili figlio dell’incontro fra finti “barbari” e autentici burocrati di corte di Versailles come sono quelli che passano dal posto di direttore centrale a quello di ministro per tornare alla casella iniziale spiegando sempre che la colpa è dei “politici”, meglio se di quelli “locali”. Il capolavoro è stato perfezionato e reso legge bronzea di Bankitalia dal professor Monti, la cui azione di revisione ferrea della spesa pubblica ha ridotto sì la spesa aggregata dei Comuni di 15 miliardi di euro nel 2012, ma ha aumentato di 41 miliardi, quasi il 5 %, quella della sua amministrazione!

Avremmo dovuto dire da subito che pensare di avere avanzi di cassa di 150/200 milioni per almeno otto anni al Comune di Milano significa semplicemente non fare investimenti e manutenzioni per la prossima generazione, nemmeno fermando la sciagurata deriva delle amministrazioni che usavano i proventi straordinari per coprire la spesa corrente, come dire vendere l’auto per comprare la benzina. Tutti blaterano di grande occasione diventata poi unica occasione per Expo 2015, ma tutto sarà inutile se il sistema pubblico locale, Comune in testa, non è messo in grado di spendere denari di cui dispone o potrebbe disporre attraverso qualche ragionata cessione di patrimonio, avviando gli investimenti sulla città che costituiscono la vera opportunità, muovendo almeno un miliardo di euro per opere e innovazioni tecnologiche e ambientali realizzate dalle centinaia di imprese milanesi, lombarde e del Nord che oggi possono lavorare solo come subappaltatori o come fornitori per il mercato estero di tecnologie che ci “tornano” in casa marchiate Cisco o Samsung.

E poi bisogna mettere fine all’egalitarismo comunale, a questa strana teoria tra il pauperistico e il populistico secondo la quale gli strumenti di governo, controllo e responsabilità della nobile e antica città di Pizzighettone sono esattamente gli stessi di quelli imposti al Comune di Milano ma non a quello di Roma, almeno in parte, grazie alla legge Roma capitale e nemmeno a quelli di Catania o Napoli , dove leggi – mancia dell’ultimo minuto salvano bilanci devastati e malgestiti. Siamo al paradosso che la “specialità” di Milano è riconosciuta e apprezzata come tale in tutto il mondo mentre qui siamo alle prese con le “conferenze di servizi” come unico luogo conosciuto per evitare che decisioni di sviluppo del territorio siano fatte contando pennacchi e fasce tricolori, in una logica di assedio del contado alla città, neanche fossimo ai tempi nei quali Radetzky tornava a Milano accompagnato dai contadini festanti che dicevano che a far le Cinque Giornate erano stati “i sciuri ” di città e non loro.

Le procedure barocche dell’amministrazione pubblica, “europeizzate” da Monti con la centralizzazione della Tesoreria e dando a ragioneria e collegio dei revisori il ruolo di ufficio decentrato del Governo (non avrei mai pensato di dover rimpiangere i prefetti che si occupavano di controllo contabile dell’amministrazione, a paragone si trattava di una macchina efficientissima!), semplicemente tolgono ogni possibilità reale e realistica di efficacia. Expo o non Expo, non è pensabile che negli anni Duemila i tempi di decisione e attuazione di qualsiasi atto pubblico poco più che semplice si siano triplicati rispetto agli anni ’80, peraltro senza nemmeno aver garantito un incremento al livello di lotta alla corruzione e all’irregolarità.

Tanto per avere una idea precisa di quali siano gli effetti di questa gestione in salamoia delle amministrazioni locali, si pensi che nelle stesse ore nelle quali la Xerox e i comuni di San Francisco e Zurigo stanno sperimentando un nuovo software in grado di gestire occupazione e tariffe parcheggi su una area urbanizzata di 250 kmq con un satellite e due persone in turno, il Comune di Milano non può che rappezzare un sistema di posta elettronica risalente ai tempi di Carlo Cudega di cui stanno chiedendo copia per conservazione al Museo della Scienza e della Tecnica.

Diciamo sempre che se Milano non riparte, non riparte l’Italia. Vogliamo cominciare da qualcosa, da queste proposte dell’amministrazione comunale o da altre che però dovrebbero essere per una volta esplicite, precise e circostanziate? Chi c’è batta un colpo. Finora si è sentito poco o nulla. Afasia o mancanza di idee?

 

Franco D’Alfonso

 



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