26 giugno 2013

IL VERDE METROPOLITANO. L’AMAREZZA DELLE COSE GIÀ DETTE


Ho visto sull’ultimo numero l’intervento di Elena Grandi che propone “nuove regole per il verde a Milano”. E sono andato a riguardarmi quel che avevo scritto sul tema per ArcipelagoMilano un paio d’anni fa, un po’ illuso dal momento magico del dopo elezioni, uscito il 21.6.2011 con il titolo “Pisapia sindaco: qualche idea per il verde”.

Capisco che l’angolo di visuale di un consiglio di circoscrizione possa essere diverso, ma io vorrei qui sommessamente riproporre, per il tema del verde a Milano, anzitutto un angolo di visuale, un disegno, un respiro metropolitano (tra l’altro, poco se ne parla, ma l’1.1.2014 si avvicina, la città metropolitana ci sta arrivando addosso, anche a livello istituzionale, oltre che come dimensione reale del quotidiano).

Scrivevo due anni fa: “il verde non è cosmesi urbana, è componente strutturale della città contemporanea. Quindi parlare di verde significa parlare di urbanistica, di assetto del territorio, di progetto della città… Milano non è quella che sta dentro i confini comunali, Milano è la Grande Milano, ha, deve avere un respiro metropolitano”.

Quindi “anzitutto tornare a lavorare nelle periferie. Tornare a lavorare sulla cintura verde metropolitana, per ricucire e interconnettere con il verde e con la viabilità dolce le periferie urbane con i tessuti edificati della prima fascia esterna, per trasformare (vedi l’esperienza Parco Nord) aree marginali e degradate di periferia metropolitana in aree pregiate, in nuove centralità; per innescare, partendo dal verde, processi di riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica di area vasta”.

Non è né una figura retorica né una prospettiva scontata. Il mettere al centro dell’attenzione la prospettiva metropolitana, il sistema dei parchi di cintura della Grande Milano (già presenti nel disegno strategico del PGT e che tuttavia non diventeranno mai realtà se per ciascuno di essi non daremo avvio a un progetto e, soprattutto, a un processo, a un paziente lavoro di immaginazione e creazione, di ciascuna nuova tessera del grande mosaico) obbliga davvero a “invertire la tendenza”, per riprendere una felice espressione di Elena Grandi che mi vede del tutto consenziente.

Perché, ad esempio, obbliga a mettere al centro dell’attenzione (e dei piani di spesa) le nuove, grandi aree da trasformare in verde estensivo delle periferie, risparmiando magari sulle aiuole fiorite del nostro centro urbano, fatte di violette e verdurine stagionali, da sostituire ogni volta a fine fioritura (che mi fanno sempre venire in mente Ippolito Pizzetti e le sue invettive contro le “arlecchinate che gridano vendetta…”).

Perché, ancora, obbliga a rimettere in discussione il metodo stesso del “global service” come onnicomprensivo e onnipresente e a riconsiderare magari con maggiore attenzione le esperienze e i metodi di costruzione e gestione del Parco Nord da un lato e del Boscoincittà e del Parco delle Cave dall’altro, tre parchi che insieme fanno quasi 9 milioni di mq. una bella fetta dunque del verde milanese. E obbliga a fare un ragionamento su questi altri metodi e altri possibili attori per il nuovo verde milanese: perché, ad esempio, il metodo dei “piccoli passi”, della gradualità, dell’ufficio “centro parco” con un suo direttore sul posto, che è stato vincente al Parco Nord, non è stato tentato per l’ampliamento del Forlanini, dove dal concorso internazionale del 2001 non solo non è successo niente, ma recentemente si è pure cominciato a svendere aree pubbliche (“tanto, eran lì a far niente”) per farci un bel campo di pratica golf, privato, recintato e per di più autorizzato in pieno Parco Sud.

Come pure meriterebbe maggiore attenzione il metodo CFU/Italia Nostra, che in quasi quarant’anni ha prodotto e condotto in modo encomiabile il Boscoincittà, e in una dozzina ha riqualificato il Parco delle Cave, quando era ridotto a luogo di spaccio e terra di nessuno (convenzione questa che poi l’Amministrazione Moratti/Cadeo ha portato alla revoca; ma, a proposito, come mai la situazione a oggi è rimasta tal quale?); come mai queste esperienze sono più conosciute all’estero che valorizzate a Milano? Siamo sicuri di poterci permettere di ignorare, coi tempi che corrono, un modo di mobilitare il volontariato, quello di Italia Nostra appunto, che non riguarda qualche fazzoletto di verde qua e là, ma grandi obiettivi di trasformazione e riqualificazione di scala urbana e territoriale, e che si accompagna alla capacità di realizzare ambiziosi progetti, gradualmente nel tempo, a costi contenuti e anche in assenza di un piano di finanziamento iniziale definito (quindi in condizioni improponibili per qualunque tipo di appalto, non solo per il global service)?

Un altro punto: nella dimensione del verde metropolitano, le aree agricole, che pure rimangono “non direttamente fruibili dai cittadini”, trovano invece una loro nuova e straordinaria funzione nella prospettiva del Parco Sud, non solo come contesto paesaggistico, capace di autogestirsi e autorigenerarsi, di aree e di percorsi che invece direttamente fruibili lo sono o lo debbono diventare, ma anche e sopratutto nel ritrovare un nuovo rapporto vivo e vitale con la città (fatto della riscoperta della agricoltura periurbana di prossimità, del km zero, della rivitalizzazione delle cascine e di tante altre belle cose che l’occasione unica e irripetibile dell’Expo sui temi del “nutrire il pianeta” avrebbe dovuto incentivare e far decollare, e che invece a quanto sembra non sono più al centro della scena: perché al centro della scena –approfittiamo di questa parentesi aperta sull’Expo per toglierci qualche sassolino dalla scarpa – ci sono naturalmente i padiglioni, il cemento e gli appalti.

Ma anche, per rimanere sui temi del verde, un grande parco del quale non si sa nulla, ma che certamente rimarrà estraneo al sistema del verde milanese, per il modo assurdo e casuale della scelta dell’area, che sta a monte di tutto; e una via d’acqua, della quale si sa invece abbastanza da poterla considerare con grandissima preoccupazione: presentata all’inizio come canale navigabile, diventata alla fine poco più che un rigagnolo, per di più tombinato per vasti tratti, un nuovo secondario Villoresi della portata di poco più di 2 mc/sec, rischia tuttavia di provocare danni gravi e irreparabili, soprattutto sotto il profilo paesaggistico, entro i parchi esistenti del settore ovest (Trenno e Cave), laddove sarebbe invece stato possibile, semplice ed economico il recupero di parti del reticolo irriguo storico; ecco invece la nuova via d’acqua, opera costosa e inutile, propagandata come il “prezioso lascito dell’Expo alla città”, quanto saremmo felici di poterne fare a meno. Ma anche noi, come diceva in proposito LBG qualche settimana fa, “ci siamo arresi, alla faccia della partecipazione, di fronte a un muro di gomma”).

Insomma, è inevitabile; parlare di verde, dal mio punto di vista, significa parlare di territorio e ambiente alla grande scala, significa parlare di città e campagna, di Parco Sud e, al suo interno, sia di nuova agricoltura che del sistema sud dei parchi di cintura (Ticinello, Risaie, Abbazie ecc.); significa parlare del Lambro come filo conduttore di interconnessione del verde e grande corridoio ecologico di tutto l’est milanese; significa ragionare sul come portare a sistema i parchi dell’ovest, a partire dal nucleo Trenno/Bosco/Cave/ippodromi, e del nord, a partire da Parco Nord / Grugnotorto / Balossa. Significa ragionare sul verde come unico sistema, a diversissimi e articolati livelli di tutela e di gestione, di cui fanno parte tutte le aree verdi, pubbliche e anche private, tutti i parchi, tutto il reticolo idrografico superficiale e sotterraneo, tutta la rete ecologica e anche tutto il sistema agricolo; e per ciascuno di questi livelli e di queste realtà ragionare su come progettare e innescare appropriati processi di cura, di tutela e di gestione: aree verdi da tutelare e gestire e altre da riqualificare e recuperare, rogge e fontanili da tutelare e altri da ripristinare e riattivare, corridoi ecologici da difendere e valorizzare e altri da deframmentare perché possano tornare a essere reali e non solo sulla carta; e aree agricole da tutelare nel loro insieme ma anche da progressivamente convertire alla “nuova agricoltura”, all’agricoltura di prossimità, a una agricoltura che, recuperando un nuovo rapporto con la città, possa diventare anche, gradualmente, artefice viva di un nuovo paesaggio, il nuovo paesaggio del Parco Sud, il nuovo volto della campagna milanese.

È solo il mio punto di vista. Un sogno, una visione che non mi stanco di riproporre.

 

Francesco Borella

 



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