18 maggio 2009

NO KEBAB ZONE


In questa città che sia un’auto a intralciarti il passo o il nido senza posti per tuo figlio, ci si lamenta sempre della responsabilità di qualcun altro e alla fine, è facile che sia “loro”. Loro, a seconda dei periodi storici e delle cronache, sono stati i “terùn”, i marocchini, i “vu’ cumpra”, gli albanesi e ora i kebab.

Non è chiaro quale sia l’origine di questi nuovi stranieri, se turca o araba; sono colpevoli di non appartenere alle “merceologie tradizionali” da considerare “a tutti gli effetti testimonianze vitali della cultura locale” spiega il Presidente della Commissione Cultura in Regione, Belotti, tra i promotori dell’ordinanza che sta animando le chiacchiere nei bar. Quarant’anni e un passato da commerciante, Belotti ha dedicato un sito alle sue battaglie per “preservare la bellezza e l’identità dei centri storici, evitando la spersonalizzazione della tipicità dei nostri borghi medioevali”. Vi rivendica, tra le altre, la facoltà di sposarsi “parlando la lingua della proprio terra”: un modo per “salvaguardare e valorizzare gli elementi di un tessuto culturale unico che non si può assolutamente perdere” e insieme “rendere meno asettica la cerimonia”. Come alleggerire l’evento dai toni più formali, lo suggerisce l’allegato prospetto, scaricabile per compitare (“per lo spelling” precisa) i dati anagrafici o fiscali che alla P di Palermo sostituisce Pota o Puntida, Rat alla R di Roma.

Edotti sulla lingua, resta da chiedersi il significato di parole quali identità, tipicità e cultura tradizionale in una città che si è a lungo pensata avanguardia nel Paese sino ad acclamare, al pari d’icone globali come New York, Parigi o Londra, ogni mutamento in grado di procurare anche solo il brivido del cambiamento stesso. Crocevia dell’effimero e dell’efficienza questa città ha barattato presto i suoi lari e penati con modernità e innovazione, consapevole di quanto i primati della Scala o del Piccolo condividessero sin le viscere dei cabaret e dei ritrovi d’artista.

Stupisce che in una città tanto smaliziata e vibrante oggi si discuta se chiudere i locali all’una o alle due di notte; ci si schieri stizziti con Belotti per “la gente che lavora e ha diritto al riposo”, quasi s’ignorasse la difficoltà di bere un caffè dopo le otto di sera, trovare una pizza finito il cinema o peggio rientrare in taxi passata la mezzanotte. Colpisce che lo strepitio per l’ingombro degli arredi su strada, gli assembramenti o i graffiti, non s’infranga nell’indignazione per l’assenza di aree pedonali e di verde, l’accaparramento individuale di ogni spazio pubblico, la commercializzazione spinta di qualsivoglia evento sociale. Nella vacatio di strategie di gestione del sistema urbano se non anticipatrici, quanto meno attente alla domanda di luoghi e servizi collettivi, sarebbe interessante intervistare oggi quanti insorsero contro la chiusura al traffico di Corso Vittorio Emanuele, o interrogare la vox populi sullo stato di fatiscenza cui da anni ormai è ridotta la Darsena.

Refrattaria alla complessità, la città delle “no kebab zone” finisce per scadere nel vernacolo e per assimilare la lingua al dialetto, l’identità al focolare domestico, il territorio a cartolina. Così effettivamente si governa il borgo medievale, lasciando alle lotte intestine spartirsi le aree d’influenza, al clan del più forte la scelta di chi accogliere al tramonto entro le mura; fuori un cartello indica al volgo M: come Milàn.



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