18 maggio 2009

IL MANTELLO DI S. MARTINO ED IL LAVORO DEGLI IMMIGRATI


Le riunioni familiari hanno questo di bello, che spesso ci riportano vicino al sentire diffuso, non importa quanto confuso, di chi abita la “pancia” del Paese.

Così capita, a me come a tanti in questi giorni di cresime e comunioni, di passare qualche ora con parenti e conoscenti, che non fanno parte di quel certo mondo di relazioni intessuto tra persone che condividono generalmente una determinata scala di valori, insomma quel “brodo democratico” da cui il mestolo trae sempre la medesima pietanza. Non varrebbe ovviamente la pena di parlare di questo minuscolo fatto personale, se quest’occasione di scambio sociale non mi avesse rappresentato, quasi plasticamente, il paradigma su cui registrare l’evoluzione della cultura sociale diffusa sul tema dell’immigrazione e della convivenza civile nel nostro paese.

Con sorpresa ho osservato che alcune di queste persone, non politicizzate e pur sensibili socialmente e umanamente, si sono espresse con forte fastidio nei confronti della figura ideal – tipica dell’immigrato. A nulla valevano fondate considerazioni storiche, statistiche, culturali, tutte valide e tutte inesorabilmente finite a naufragare contro gli scogli di una visione che aveva ormai assunto la solidità di un pregiudizio popolare, senza distinzioni.

Lo scorno per non aver potuto affermare un diverso punto di vista, anch’io ho le mie piccole ambizioni politiche, è stato però pari alla sorpresa del giorno dopo, quando quelle stesse persone raccontavano con toni di autentica indignazione le vessazioni cui era stato sottoposto un povero immigrato pakistano, anziano e malmesso, da parte di “feroci” controllori dell’ATM, supposti leghisti.

Partiti parenti e conoscenti, mi è rimasto in tasca l’interrogativo: come spiegare comportamenti tanto contraddittori, come motivare l’alternanza emotiva che porta molti, anche nel campo democratico, a indossare opposte maschere sociali, quasi fossero nuovi Dr. Jekill e Mr. Hyde?

In realtà, mi sono via via convinto che le opposte rappresentazioni del sentimento verso gli immigrati non siano poi così del tutto contraddittorie. A me pare che esse condividano, in parte almeno, e sia pure attraverso articolate e complesse mediazioni, una medesima premessa culturale, fondandosi entrambe sulla visione della figura dell’immigrato come ospite, un ospite bisognoso e tendenzialmente scomodo, cui volta a volta guardare con spirito di carità, di solidarietà o di fastidio e repulsione, a seconda dei casi, delle situazioni e dell’evoluzione delle cose.

Il momento della solidarietà verso il bisogno presuppone infatti per molti, anche inconsapevolmente, un sentimento quasi di superiorità sociale, ma anche spirituale, verso la persona sfortunata che ci si presenta dinnanzi, e intanto saremo disposti a praticarla nella misura in cui questa non determini una significativa privazione per noi: è la visione del “povero” che è tale per sfortuna o anche per sua colpa, e che è desideroso di “carità”, così come chi la dona è desideroso di “santità”. “Povero” come persona cui fare del bene, ma che non ha diritto a pretendere, “povero” infine come persona cui dare qualcosa di nostro ma con “juicio”.

Così quando solidarietà equivale a tagliare in due con la spada il proprio Mantello in una fredda notte invernale, non tutti, o meglio molto pochi, si sentono come S. Martino, figura eroica dello spirito di carità.

E questo vale tanto più quanto minori sono le risorse di cui si dispone e maggiori sono le “pretese” dei beneficiandi: a questo punto l’ospite diventa comunque “scomodo” perché toglie prestazioni sanitarie, posizioni in graduatoria per la casa, occupa spazi, riempie perfino di spezie “puzzolenti” l’aria netta del nostro cortile e così via.

E questo nonostante le buone intenzioni di partenza: le istanze solidaristiche mostrano così un logoramento sempre più insostenibile.

Vi è soluzione a una contraddizione così impostata?

Sì, e sempre S. Martino ci viene in aiuto.

Narra la leggenda che il Mantello, prima generosamente con – diviso, riapparve di nuovo integro alla mattina seguente, premio celeste per tanta generosità. Il Mantello che gli immigrati ci fanno ritrovare integro ogni mattina è tessuto da milioni di ore di lavoro ed è fatto di lavoro di fabbrica, lavoro di cura, lavoro agricolo, lavoro edile, attività imprenditoriali, quasi sempre prestato in condizioni che non è arduo definire di sfruttamento. Lavori essenziali per il funzionamento della nostra società, ma che gli italiani non intendono più fare ed effettivamente non fanno.

Contributo essenziale per la nostra società, esercitato attraverso mansioni pericolose, umilianti, faticose, soprattutto poco o nulla riconosciute: si stima che attualmente il 10% circa del PIL italiano sia prodotto dal lavoro degli immigrati e vi sono molti dubbi, anzi certezze, che a essi non ritorni una quota adeguata.

E’ allora il Lavoro che costituisce oggi il titolo maggiore e incontrastabile del diritto degli immigrati alla cittadinanza, alle prestazioni, alla condivisione equa insomma delle risorse che essi stessi concorrono a generare.

Ed è principalmente su questa base, ossia il riconoscimento del valore generato dal loro lavoro, che gli immigrati maturano un diritto specifico, diremmo “originario” in quanto non generato e non concesso da altri, alla redistribuzione della ricchezza, delle prestazioni dello Stato e del rispetto dei diritti, poiché è esattamente su questa premessa che è scritto l’articolo principale della nostra Carta: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro….” (art. 1).

In volgare, si potrebbe dire che “Chi non lavora non mangia”, e altrettanto allora si dovrà dire che “chi lavora mangia”, chi lavora ha diritto proprio, non derivante da concessioni, alla propria fetta di ricchezza sociale.

La sinistra, il PD, si sono attardati eccessivamente su di una visione principalmente solidaristica, centrata principalmente sul riconoscimento dei bisogni e dei diritti degli immigrati come persone in difficoltà. Rimettano al centro della propria azione una visione effettivamente autonoma rispetto a quella delle destre, che ricomponga nel mondo del lavoro la specifica posizione dell’immigrato, una visione centrata sul lavoro e sui diritti e sulla dignità che ne derivano. Riaffermino il valore del lavoro, non importa qui se dipendente o reso in altra forma, come principale fattore di sviluppo sociale di unificazione delle mille specificità che attraversano la nostra società, come fondamento di un rinnovato patto nazionale di cittadinanza cui possano accedere quanti contribuiscono a fare la ricchezza del nostro Paese.


 



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