12 giugno 2013

ANIMALI NELLA SPERIMENTAZIONE: CAPIRE DAVVERO IL PROBLEMA


L’irruzione di un gruppo di animalisti nel Dipartimento di Farmacologia dell’Università Statale di Milano, e la conseguente distruzione dei risultati di anni di ricerche su malattie neurodegenerative, ha avuto un’immediata risposta dal mondo della ricerca, soprattutto grazie all’iniziativa di giovani ricercatori e studenti. La loro mobilitazione ha fatto sì che anche nell’opinione pubblica si aprisse un dibattito se sia utile e giusto utilizzare gli animali nella ricerca di nuovi farmaci o di nuove terapie.

Secondo gli animalisti non è giusto, spesso però con motivazioni diverse. C’è chi vi si oppone per motivi etici ritenendo che gli animali, tutti gli animali, abbiano gli stessi diritti degli umani. Diritti che andrebbero particolarmente tutelati stante la loro impossibilità di autodifendersi legalmente. Si tratta tuttavia di una posizione minoritaria, stante anche le abitudini alimentari della popolazione mondiale.

Le più importanti organizzazioni animaliste, per sostenere che non sia né giusto, né utile, ricorrono ad argomentazioni apparentemente razionali. La prima è che gli animali non sono uguali all’uomo e di conseguenza una determinata sostanza chimica può avere effetti diversi su organismi differenti. Si tratta di un’argomentazione, peraltro, del tutto condivisa dal mondo della ricerca, che è ben consapevole che gli animali sono dei modelli non completamente sovrapponibili all’uomo, ma rappresentano delle approssimazioni necessarie.

È noto, ad esempio, che un topo o un ratto (che rappresentano circa il 95% degli animali utilizzati in Italia nella sperimentazione) ha un patrimonio genetico pari al 95% di quello degli umani. La sperimentazione sugli animali non offre certezze assolute, ma sicuramente concorre a ridurre di gran lunga i possibili effetti negativi di un nuovo farmaco sull’uomo, su cui comunque deve essere sperimentato nella fase finale della ricerca, prima di essere messo in commercio.

La sperimentazione clinica sull’uomo è, infatti, la tappa successiva agli studi sulle cellule e negli animali per stabilire gli effetti benefici e tossici non solo dei farmaci ma anche dei dispositivi medici (pace-maker, defibrillatori, organi artificiali, stent, ecc.) e dei componenti nutrizionali. Questo è il percorso che garantisce al paziente di ricevere un trattamento il più possibile sicuro che non sia causa di ulteriore peggioramento delle sue condizioni.

La seconda argomentazione degli animalisti si basa sulla presunta esistenza di metodologie alternative in vitro e in silico, ovvero effettuate in laboratorio su gruppi di cellule, oppure con simulazioni al computer. Entrambe le metodologie sono ampiamente utilizzate nei laboratori di ricerca di tutto il mondo, ma sono considerate complementari e non alternative rispetto ai percorsi della ricerca.

Il buon senso, prima ancora che delle competenze tecniche, ci dice che la distanza tra un modello basato su cellule e l’uomo è anni luce più grande rispetto alla distanza che separa un uomo da un topo. I topi hanno organi simili all’uomo (cervello, cuore, fegato, ecc.) regolati da sistemi complessi comuni come quello cardiocircolatorio, immunitario, nervoso, ormonale e tante altre similitudini come il DNA. Se, come sostengono gli animalisti i topi non sono ritenuti utili a rappresentare l’uomo, come può esserlo una cellula o un gruppo di cellule? Sul computer, inoltre, a oggi non si è ancora riusciti a costruire dei modelli capaci di rappresentare la complessità del funzionamento e l’interazione dei diversi organi e dei sistemi che li regolano.

Per la comunità scientifica internazionale, il ricorso agli animali nella sperimentazione scientifica rimane a tutt’oggi una necessità. Nel corso degli ultimi cento anni, su 98 premi Nobel assegnati per la Medicina e Fisiologia, 75 erano basati su ricerche che coinvolgevano animali. Basti pensare a quello assegnato nel 2008 per le ricerche sull’HIV e l’HPV o a quello del 2005 sull’Helicobacter o a quello del 2010 per le ricerche sulla fecondazione in vitro e il trasferimento di embrioni.

Tutto ciò non porta a dimenticare la tutela del benessere degli animali. L’Italia è uno dei Paesi più avanzati da questo punto di vista. La legislazione italiana, tra le più severe del mondo (più severa della stessa Direttiva europea in corso di approvazione), prevede che debbano essere adottate tutte le precauzioni affinché sia evitata sofferenza agli animali che entrano in sperimentazione.

Va detto inoltre che un animale che soffre è fonte di risultati non attendibili: quindi è nell’interesse del ricercatore stesso studiare animali nelle migliori condizioni possibili. Impedire l’allevamento in Italia di animali (cani, gatti e scimmie) destinati alla sperimentazione scientifica, significa solo spostare il problema altrove, diminuendo le capacità di controllo sulle condizioni di vita degli animali assicurate dalla legge italiana e, soprattutto, dagli organi ispettivi che esercitano controlli frequenti e rigorosi.

Da ultimo, ma non meno importante, va sottolineato il ruolo che ha e ha avuto lo sviluppo delle tecnologie, in particolare di quelle diagnostiche, nella riduzione del numero di animali da utilizzare nella ricerca. All’Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’, ad esempio, quindici anni fa si utilizzavano circa 120.000 topi o ratti ogni anno, oggi circa 15.000, molti dei quali al termine vengono offerti in adozione.

L’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica è obbligatorio in tutto il mondo non a seguito del potere delle lobby farmaceutiche e neppure per il ‘conservatorismo’ dei ricercatori, entrambi, dati i costi, ne farebbero volentieri a meno, ma non possono perché allo stato attuale delle conoscenze si tratta ancora di un passaggio irrinunciabile.

Chi avrebbe il coraggio di utilizzare un farmaco su un bambino o su un qualsiasi ammalato senza prima averne osservato il funzionamento su un organismo vivente complesso dotato di sistemi funzionali analoghi a quelli presenti negli umani? È a partire da questa domanda che si dovrebbe impostare un confronto serrato e documentato basato su evidenze scientifiche e non su contrapposizioni ideologiche.

 

Sergio Vicario

 

 

 

 

 

 

 



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