12 giugno 2013

libri – NOI DONNE DI TEHERAN


FARIAN SABAHI

“NOI DONNE DI TEHERAN”

Collana “I corsivi”, e-book del Corriere della Sera

pp. 45, giugno 2013

libri_22“La verità è uno specchio, caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi: ogni pezzo restituisce a chi lo tiene, una parte di verità”, così recitava il sufi Rumì. E questo “Noi donne di Teheran” testo nato per il teatro, è il frammento di verità che Farian Sabahi ci dona a proposito della sua città. E lo fa anche per sfatare la pessima stampa che nel mondo circola oggi sul suo paese, l’Iran “perché i cani abbaiano – evoca l’autrice- e la carovana passa”. E il testo appare tanto più prezioso oggi, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali fissate per il 14 giugno, e nelle quali non è stata ammessa nemmeno una delle 30 candidate.

Farian Sabahi, giornalista, docente di Storia dei paesi islamici all’Università di Torino, ci offre il ritratto di una città colta, indecifrabile, orgogliosa, popolata da donne vitali preparate e indomite. E come una novella Sherazade, l’autrice ci racconta, a volte in forma onirica, con la levità delle sue 45 pagine, la tanta vita che fluisce nelle pieghe della sua Teheran, città carovaniera, sulla via delle spezie, della seta, delle pietre preziose, e ancora oggi animata da intellettuali, uomini di fede, artisti, registi, mercanti, ora cinesi e russi, dopo le sanzioni.

Dotata di due geografie, la montagna a nord e il deserto a sud; di due anime, quella occidentale e quella orientale, la città sorge, fiero crocevia, su un altipiano tra i 1200 e i 1700 metri. Un clima difficile, data l’altitudine, per i 12 milioni di abitanti distribuiti su un diametro urbano di 50 chilometri, che fa di Teheran, con Istanbul e il Cairo, una delle tre megalopoli del Medio Oriente. Sorge sul 35esimo parallelo come Lampedusa e conserva molti rituali popolari simili a quelli del nostro sud. Ma Teheran non è città antica come Isfahan, perchè risale al 1700.

Fu Reza Shah a cambiare il nome Persia, in Iran, per evocare le glorie dell’antico impero persiano. Già, perché questa terra cinque volte l’Italia, vanta 3000 anni di storia e noi siamo suoi figli per stirpe, lingua, cultura, l’indoeuropea appunto. Gli iraniani perciò non sono arabi, anche se la maggioranza pratica la religione musulmana nella versione sciita, che si contrappone a quella sunnita, al punto che benché Teheran sia città multiculturale, multireligiosa, multietnica, le sole moschee sunnite sono vietate. Persiani erano i Re Magi, sacerdoti del profeta monoteista Zoroastro. Del resto lo stesso nome Parsifal è ispirato a termini persiani.

Sotto il profilo geopolitico e per le ricchezze del sottosuolo l’Iran suscitò gli appetiti di russi, turcomanni, kirghisi, uzbeki, mongoli, e infine quelli degli angloamericani. Ma mai fu schiavo, anche se subì pesanti ingerenze straniere, come insegna la fine del primo ministro Mossadeq nel 1951, che osò nazionalizzare il petrolio, e come la sorte dello stesso Reza Pahalvi ricorda. Nel 1979 la Rivoluzione islamica dell’Ayatollah Komeini cambierà la storia del paese e interromperà il cammino di occidentalizzazione forzata, imposta dallo scià.

Ma come racconta la favola persiana del “Pesciolino nero”, lo spirito della sovversione non può essere messo a tacere, e la città vive sospesa tra tradizione e modernità, all’interno della Repubblica islamica, che dovrebbe essere una democrazia, ma in realtà è una oligarchia di ayatollah e pasdaran. E l’arte è un’arma formidabile per comunicare il disagio, come il cinema del regista Jafar Panahi. Imprigionato e poi rilasciato, in attesa di Appello, egli vince nel febbraio del 2013 l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino con il suo Closed Curtain. O come il noto “Persepolis” autobiografia a fumetti, poi film, di Mariane Satrapi, una donna, una coraggiosa donna di Teheran.

E se la civiltà di un popolo è dato dal grado di emancipazione delle sue donne, ebbene l’Iran è sempre stato all’avanguardia, afferma Sabahi, se è vero che Mandana, moglie di Ciro, istituì la prima scuola nell’antica Persia e come lei molte altre donne fondarono scuole nello scorso secolo, dove già troviamo fotografe, pasionarie politiche e guerrigliere, diplomatiche, fino ad arrivare al 1935 quando Reza Shah mette fuori legge il velo, aprendo l’anno successivo l’università alle donne.

Nel ’40 incontriamo la prima pilota di aeroplani, nel ’49 la prima avvocatessa, nel ’56 la rivendicazione dei diritti delle donne alla radio, e quindi nel ’63 le donne iraniane votano per la prima volta per la “rivoluzione bianca” voluta dall’ultimo scià. Nelle elezioni politiche del 1980, su 25 candidate ammesse, 3 entrano in Parlamento. Oggi su 290 deputati, 9 sono donne. Nel ’93 Teheran ospita i giochi olimpici femminili, nel ’96 Teheran ha il primo sindaco donna e nel ’98 la prima Accademia femminile di polizia, la prima Associazione di giornaliste dal ’79.

Eppure le donne valgono tutt’ora la metà, denuncia la Sabahi, come nella successione ereditaria e nelle testimonianze in Tribunale, vedi la vicenda di Sakinè, condannata alla lapidazione. Vige la poligamia, il divorzio è difficile. E ciò nonostante la scuola, punta di eccellenza in Asia, sia obbligatoria e gratuita per tutti, maschi e femmine fino a 14 anni.

Proprio per le sue battaglie per i diritti umani, l’avvocatessa Shiran Ebadi ha ottenuto il Nobel per la pace. Possiamo essere sicuri che le donne di Teheran non si arrenderanno mai nella lotta per i loro diritti, magari ricorrendo all’arguzia, come nel caso della rinuncia al “mehrieh” il prezzo della sposa, pur di ottenere il divorzio, o nell’uso disinvolto dello “sigheh”, il matrimonio a tempo, tutto sciita.

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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