5 giugno 2013

musica


SCHIFF ROMANTICO

Come avevamo preannunciato, e in certo modo previsto, il concerto che Andras Schiff ha tenuto la settimana scorsa per le Serate Musicali ha rappresentato una svolta significativa nel percorso che il grande pianista ungherese – italiano di adozione – ci sta proponendo a Milano nella grande Sala Verdi del Conservatorio che da sempre è il cuore della vita musicale milanese per quanto concerne la musica da camera.

Schiff frequenta quella sala dal 1991 e, se la memoria non ci tradisce, per ventidue anni vi ha tenuto almeno un concerto all’anno, e spesso di più in occasione dei “cicli” e delle “integrali” di Bach e di Schubert; in questo periodo, come abbiamo già riferito, sta eseguendo per la seconda volta – è ancora a metà strada – il ciclo completo delle 32 Sonate di Beethoven.

Tuttavia quello dell’altra sera è stato un concerto particolare, ha rivelato uno Schiff diverso, più “umano” e meno “algido” del solito; come se avesse smesso gli abiti sacerdotali del “Ministro di Santa Madre Musica” per ritrovare una naturalezza e una spontaneità che ultimamente stentavamo a riconoscergli. Quest’anno Schiff compirà sessant’anni e – sarà l’avvicinarsi di questo giro di boa, sarà una sorta di saturazione nei confronti dei faticosissimi “cicli” e “integrali” – si è come “messo in libertà”, sciolto, lasciato andare. Ha suonato su un solo pianoforte mentre ultimamente ne usava due, su un normalissimo Steinway non suo, collocandolo sul palcoscenico in modo inusuale: anziché con la tastiera in posizione ortogonale rispetto all’asse della sala, il pianoforte era stato ruotato quanto bastava affinché tutto il pubblico potesse vedere le mani del pianista. Molto piacevole.

In programma vi erano quattro lavori, due di Mendelssohn e due di Schumann, alternati: aprivano le poco note “Variations sérieuses” opera 54 del primo (del 1841) e chiudevano i notissimi “Studi Sinfonici” opera 13b del secondo (nell’ultima versione, 1852), e fra l’uno e l’altro due Sonate/Fantasia e cioè l’opera 11 in fa diesis minore di Robert (del 1832) e la “Sonata scozzese” opera 28, nella medesima tonalità, dell’amico Felix (del 1830).

Quattro opere molto diverse fra loro ma tutte appartenenti a un’atmosfera molto particolare, quella della Lipsia degli anni trenta e quaranta dell’ottocento, dove il fermento musicale era elettrizzante, dove viveva o si incontrava quella generazione di musicisti nati a cavallo dei primi due decenni del secolo che sono diventati punto di riferimento della grande musica fra la prima stagione viennese – da Haydn a Schubert – e la seconda, che arriverà con Schönberg e la sua scuola. A poca distanza da Lipsia, nella aristocratica cittadina di Weimar – un secolo prima che diventasse celebre per motivi politici – si spegneva la mitica esistenza di Johann Wolfgang von Goethe, nella cui bella e celebre casa si eseguiva la nuova musica come per riceverne la benedizione; così fece Mendelssohn con la sua Fantasia e il grande Vecchio (era del 1749, si sarebbe spento due anni dopo, nel 1832) non gliela lesinò.

Schiff si addentra in questo mondo di sentimenti e di passioni non più di quanto il suo carattere sobrio e schivo gli consenta, ma quanto basta per emozionare il pubblico. Abbandonando il rigore e il distacco che generalmente caratterizzano le sue interpretazioni, forse non sentendosi impegnato come sempre a realizzare la perfezione assoluta (che non necessariamente si accompagna all’emozione) ma pur sempre con una esecuzione nitida e pulita, senza sbavature, è riuscito a sviscerare e tenere insieme gli elementi di classicità e di modernità che si fondono nel romanticismo tedesco e che ne fanno un estremo vertice di equilibrio e di raffinatezza.

Nella sua lettura si sono udite nitidamente le reminiscenze e gli echi della musica di Mozart e di Schubert, in particolare in Mendelssohn si sentiva la passione – l’autentica adorazione – mai nascosta per Bach; ma la tensione emozionale (nel Presto della “scozzese”), la delicata fantasia (nelle Variazioni “sérieuses”), il morbido lirismo (nell’Aria dell’opera 11 di Schumann, quasi belliniana) che hanno segnato gli anni successivi alla morte di Beethoven (1827) sono emerse con grande chiarezza ed hanno inondato l’atmosfera. Un concerto che ci ha portato al cuore della musica dell’ottocento e ce ne ha fatto cogliere il momento magico, l’apice di un’epoca che per certi versi sembra proprio irripetibile.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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