29 maggio 2013

TRIENNALE. CDA E NON SOLO, RIDISEGNARE I RUOLI


Molti ricordano la Triennale del 1933, non solo perché coincise col trasferimento a Milano nel Palazzo dell’Arte disegnato da Muzio, ma perché (dopo gli anni delle Arti Decorative a Monza) la direzione di Ponti consacrò l’architettura come nuova mission dell’istituzione. Tutti ricordano la Triennale del 1936 perché Giuseppe Pagano vi aprì le porte all’architettura razionale. Memorabile, nel 1947, la Triennale di Bottoni per lo slancio verso il sociale e la sua battaglia per la casa per tutti. Rimane nella storia la XIII Triennale del 1964, quella del “tempo libero” di Eco e Gregotti, consegnata per sempre all’icona delle bagnanti picassiane di Gae Aulenti in corsa verso il mare.

Baldessari e Albini, Fontana e Colombo, Piano e Zanuso, Castiglioni e Mendini …. sono i nomi che subito si affacciano alla mente ogni volta che pensiamo alla lunga storia della Triennale, ma sfido chiunque a ricordare chi ne furono i presidenti e mi domando se c’è qualcuno che saprebbe con altrettanta immediatezza rispondere: Mangiagalli, Ivan Lombardo, Gentili…. .

Le Triennali passano, gli artisti si ricordano, i presidenti si dimenticano. Nati sotto il segno della politica, i presidenti hanno rappresentato per lunghissimo tempo i punti di forza o quelli di mediazione tra le culture politiche espresse dai partiti, nella convinzione – diventata poi una consuetudine – che in fin dei conti la presidenza di un Ente culturale fosse l’ultima (ma onorevole) spiaggia riservata ai servitori della politica usciti fuori dal gioco attivo o in panchina in attesa di ritornarci. Si obietterà che, sino alla crisi degli anni ’70, le Triennali hanno esercitato una funzione importante: grazie ai comitati scientifici e direttivi, però, più che ai loro presidenti.

Questi hanno assunto un ruolo autoriale solo molto recentemente: con Augusto Morello (nel 2000), che dovette traghettare la Triennale verso la sua terza fase di istituzione a operatività continua, non più limitata alla preparazione dell’Esposizione finale. Da allora il Presidente ha assunto un volto pubblico e determinante, che, nelle ultime direzioni, ha finito col travolgere anche l’attività degli organi di gestione culturale, come il comitato scientifico e i curatori artistici, di fatto eliminati per lasciare ai vertici tutte e due le mani libere. È chiaro insomma che la realtà è stata più veloce della riflessione politica e, mentre ufficialmente i ruoli sono rimasti immutati, le loro funzioni sono cambiate.

Nel caso della Biennale di Venezia una presidenza forte si assume la responsabilità dei curatori delle mostre. Non c’è però un’attività continuativa, come nel caso della Triennale, dove la figura del curatore dovrebbe corrispondere di fatto a quella del regista di una serie piuttosto ampia di iniziative, dalle mostre ai convegni, agli eventi. Dunque la prima cosa da fare è ripristinare gli organi di funzionamento, ristabilendo il principio che il Presidente ha il compito di tracciare le linee di politica culturale, i cui contenuti specifici però devono essere di pertinenza del comitato scientifico e dei curatori, evitando quella mescolanza di sacro e profano che ancor oggi – con la giustificazione di fare cassa – rende confusa la vera natura della Triennale.

Appare altrettanto chiaro (il caso del Maxxi di Roma è ancora sotto gli occhi di tutti) che la figura del Presidente non può più essere demandata alla logica spartitoria della politica che ha inquinato la vita pubblica italiana fino alle conseguenze dell’oggi, ma deve essere selezionata nella visione di un ampio mercato culturale (anche estero, se occorre, come è stato per La Scala), dove i candidati sono persone che si sono distinte per meriti riconosciuti dalla comunità intellettuale e artistica.

Una figura di alto profilo intellettuale, insomma, con funzioni di garanzia dell’alto livello qualitativo dell’attività da svolgere, capace di rappresentare con equilibrio le spinte che vengono dal mondo dell’architettura, del design, dell’arte. Sarebbe sbagliato un Presidente di parte, che eccedesse i limiti del proprio ruolo per intervenire direttamente nei programmi curatoriali (cui deve essere assicurata la massima indipendenza entro le linee di programmazione individuate dal comitato scientifico) o che pensasse alla Triennale in un’ottica di eccessiva personalizzazione dei propri interessi (o della propria carriera). Il passato recente non ci ha risparmiato nulla e insieme a tante speranze e risultati positivi, bisogna registrare con sconforto come sia debole la cultura del civil servant per cui l’istituzione è superiore alle ambizioni individuali.

 

Fulvio Irace

 



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