29 maggio 2013

cinema



LA GRANDE BELLEZZA

di Paolo Sorrentino [Italia/Francia, 2013, 142′]

con: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi

 

«Sono belli i trenini che facciamo alle nostre feste, perché non vanno da nessuna parte», dice Jep Gambardella (Toni Servillo, magnifico). Lo dice con lo sguardo disincantato di uno che sa che, nella vita, nonostante tutte le roboanti distrazioni – alla fine – non cambierà nulla. Proprio come quei trenini. Jep, giornalista e scrittore arrivato a 65 anni, cammina per le vie di Roma, osserva e incontra; fa da Virgilio alla macchina da presa di Paolo Sorrentino che – seguendolo – guarda, con lo stesso disincanto, il superficiale e il profondo che saturano la città.

Noi, in sala, attraverso gli occhi di Jep (e di Sorrentino) godiamo La grande bellezza [Italia/Francia, 2013, 142′] e partendo da una citazione del grande Louis-Ferdinand Céline viviamo l’esperienza del viaggio («sia fisico che mentale»): «l’unica cosa che conta, tutto il resto è delusione e fatica» [Viaggio al termine della notte, 1932].

La delusione e la fatica di vivere di un uomo di 65 anni che non riesce più ad appagarsi di nulla, nemmeno del sesso. Eppure la sua vita è rutilante, mondana: «io non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani, e ci sono riuscito», dice Jep. Sorrentino è strepitoso nel raccontare la “Bellezza” della fatica di vivere: il film è ricco, carico di personaggi, straripante di domande esistenziali.

Ma la cosa più bella è l’ironia. Quel prendersi poco sul serio che contraddistingue il cinema di Sorrentino. La capacità di inventare un mondo surreale e grottesco che – sempre – riesce a mettere in imbarazzo la ridicola serietà della vita. Ironico, il mondo di Sorrentino, tanto quanto il cinico Jep-Servillo che sottopelle nasconde il sentimento di recuperare la sua vita passata (da brividi la narrazione della sua prima volta). Jep, anche lui superficiale e profondo, che da un lato non può più «perdere tempo a fare cose che non gli va di fare», e dall’altro alla domanda “cosa ti piace di più nella vita?” risponde «l’odore delle case dei vecchi».

Jep, scrittore napoletano trapiantato a Roma, e Paolo, regista napoletano trapiantato a Roma, ci accompagnano attraverso La grande bellezza della vita, conciliando in maniera sublime i rutti delle nottate romane con Moravia e Proust. E il nostro viaggio è fatto di immaginazione e fantasie, ma evitando la pesantezza dei giudizi morali. Tutto sommato, quei mondi deformi ed esagerati trasudanti di alcol e sesso, quei seni danzanti tenuti vivi dal “guru” del botulino e quella vuota mediocrità, sono irresistibilmente attraenti. Tanto quanto il trucco di un prestigiatore che fa sparire una giraffa.

Alla fine, «è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile». L’importante però è ricordarsi di “prendersi in giro”, perché andando a recitare la propria parte sul palco della vita troppo spesso ci dimentichiamo che, come dice il prestigiatore, «è solo un trucco». E a volte serve l’immaginazione e la fantasia di Sorrentino per ricordarcelo.

Paolo Schipani

 

 

A LADY IN PARIS

di Ilmar Raag [Une Estonienne à Paris, Francia, Belgio, Estonia, 2012, 94′]

con Jeanne Moreau, Laine Magi, Patrick Pineau, Corentin Lobet, Ita Ever

 

A Lady in Paris, primo lungometraggio cinematografico di Ilmar Raag, comincia tra la neve e il freddo della campagna estone. Anna (Laine Magi) vive al capezzale della madre malata. La sua dedizione l’ha spinta a lasciare il lavoro per dedicare tutta se stessa alle cure del genitore. La scomparsa la fa quindi sprofondare in una gelida solitudine, prigioniera del silenzio di una casa vuota. Il trillo del telefono infrange l’assenza di rumori con la stessa potenza con cui scuote la vita di Anna: non è tanto il lavoro come badante a riaccendere i suoi occhi quanto la città in cui dovrà svolgerlo, Parigi.

La ville lumière è il luogo dei suoi sogni di gioventù mai realizzati. Anna, nonostante i suoi cinquant’anni, la guarda con gli occhi curiosi di una ragazza e col bisogno d’amore che, tuttavia, la città non è ancora in grado di contraccambiare. Come Frida (Jeanne Moreau) d’altronde. L’anziana signora, dura e indipendente, sembra non gradire la compagnia della nuova arrivata.

Anna, devota e servizievole, rappresenta l’antitesi della sofisticata signora che ha vissuto nella ricchezza e nel piacere in compagnia di innumerevoli amanti. Le due donne hanno in comune solo l’amore per Parigi e l’Estonia. Frida si rifiuta, però, di pronunciare anche solo una parola nella sua lingua madre, provando così a tagliare ogni legame con il suo passato e le sue origini.

Ilmar Raag, per il suo esordio, ha affrontato una sfida complessa. In questo rapporto atipico che lega Frida ad Anna ha scelto di rappresentare l’alternanza tra ostilità e tenerezza con uno stile registico classico e tradizionale. Il suo desiderio di mostrarci la capacità delle due donne di riprovare un’assopita voglia di vivere si appoggia però eccessivamente, e in troppi tratti del film, sulle esili e fragili spalle di Jeanne Moreau e Laine Magi.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Apollo, Eliseo.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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