22 maggio 2013

cinema


 

NO – I GIORNI DELL’ARCOBALENO

di Pablo Larraín [No, Cile, 2012, 111′]

con Gael Garcìa Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers, Luis Gnecco, Marcial Tagle

 

Nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet organizza un referendum dall’esito apparentemente scontato per legittimare il proprio potere agli occhi della comunità internazionale. Il regista Pablo Larraín con No – I Giorni dell’Arcobaleno vuole mostrarci il suo punto di vista su questo momento cruciale della storia del suo paese. L’immersione nell’atmosfera dell’epoca è immediata anche grazie a due espedienti del regista: Larraín utilizza una fotografia con i colori degli anni ’80 e alcuni filmati originali di quel periodo che gli permettono di alternare la finzione alla ricostruzione storica.

Il fronte del No, consapevole della vittoria annunciata da parte del regime, ha come unico scopo quello di sfruttare l’occasione per sensibilizzare la popolazione e informarla delle atrocità commesse nel corso del quindicennio dittatoriale. È solo grazie all’estroso e ostinato René Saavedra (Gael Garcìa Bernal), il giovane pubblicitario responsabile della campagna televisiva, che l’obiettivo diventa più ambizioso. La capacità di René di utilizzare un modello di comunicazione non ideologico è la base su cui si fonda la vittoria insperata del No. Niente violenze militari sulla popolazione o racconti delle madri dei desaparecidos o foto dell’assassinio di Allende. Saavedra vuole sfruttare i messaggi positivi e rassicuranti della pubblicità commerciale per mescolarli alla tradizione cilena con lo scopo di vendere la democrazia, la libertà e l’allegria come prodotti.

Il regista approfondisce questo aspetto per mostrarci il lato agrodolce della vittoria finale. La dittatura è sconfitta, Pinochet è stato battuto sul suo terreno e con le sue regole ma, nel Cile ormai conquistato dalle multinazionali e dal consumismo occidentale, non c’è più differenza tra elettori e consumatori.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Colosseo, Eliseo.

 

 

FUNNY GAMES U.S.

di Michael Haneke [Usa, Francia, Gran Bretagna, Austria, Germania e Italia, 2007, 111′]

 

«Perché non ci uccidete e basta?», supplica Ann (Naomi Watts), «sottovaluta l’importanza dello spettacolo!», risponde Peter (Brady Corbet). Questo è Funny Games (Usa, Francia, Gran Bretagna, Austria, Germania e Italia, 2007, 111′): spettacolo.

Il film che Michael Haneke scrive e gira (remake del suo stesso lavoro proiettato a Cannes nel 1997) è il gioco dello spettacolo. In questo caso lo show è spietato e vive di violenza immotivata; un gioco “alla morte”, ideato da Paul (Michael Pitt) e Peter, a cui è costretta la famiglia presa in ostaggio.

Le vittime dei “funny games” non sono soltanto Ann, George (Tim Roth) e Georgie (Devon Gearhart), ma tutti noi seduti in sala partecipiamo e soffriamo con la famiglia. Forse anche i “cattivi” non sono esclusivamente i due ragazzi apatici dai vestiti candidi, c’è un deus dietro allo sviluppo del racconto: Haneke. Il regista sta con loro, e sa che noi stiamo con i “buoni”. Anche Paul lo sa e guardando la telecamera, fissando i nostri occhi, afferma «voi che ne dite? Siete dalla loro parte, vero?».

Come spettatori siamo intrappolati nel gioco di Haneke, percepiamo un’inquietudine di fondo che ci spinge a desiderare un evento liberatorio. Vorremmo poter prendere il telecomando e pigiare Stop. Invece nello schermo del cinema è la finzione che detta le regole: Ann riesce a raggiungere il fucile, spara e uccide Peter; in platea ci sentiamo sollevati, potrebbe iniziare la tanto sognata rivincita dei buoni… Ma Paul prende il telecomando e schiaccia rewind, in un attimo il nastro si riavvolge e il macabro gioco ricomincia dove Haneke vuole farlo ricominciare.

Dal canto loro i due ragazzi, come sostiene Paul, vogliono «divertire il nostro pubblico, mostrargli cosa sappiamo fare», e allo stesso modo il regista mostra la forza dell’immagine e del cinema. L’immagine nella tradizione platonica è ontologicamente un inganno, è una finzione nel vero senso della parola: dal latino, fictio significa inganno. Il regista gioca con il mondo della realtà e con quello della finzione e fa partecipare anche il pubblico al suo gioco, anzi lo spettatore è senza dubbio una pedina imprescindibile.

«Ma la finzione non è reale?», come domanda Paul sul finire del film, sostenendo poi che «è reale quanto la realtà, perché la si può vedere». Finzione e realtà non sono allora due universi così incongruenti, Haneke lo dimostra con la potenza del cinema, facendoci prendere parte ai suoi funny games, e tutto questo ha un unico scopo: l’importanza dello spettacolo!

Paolo Schipani

Dal 29 maggio al 27 giugno, lo Spazio Oberdan propone la rassegna Micheal Haneke. Professione: regista. La rassegna prende avvio dal documentario di Yves Montmayeur e seguirà poi un percorso alla scoperta della poetica e dell’estetica di Haneke attraverso le proiezioni di sei film del regista.

Funny Games sarà proiettato il 5 giugno.

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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