15 maggio 2013

IL SAN RAFFAELE È SOPRAVVISSUTO; ADESSO, CHE RIPARTA


Nel mese di marzo 2012 consegnavo ad ArcipelagoMilano le mie impressioni sulla vicenda San Raffaele, che aveva da poco visto la conclusione della vertenza finanziaria, con l’acquisto dell’ospedale da parte di Rotelli. Il gruppo San Donato (Velca) aveva “sbaragliato” a sorpresa concorrenti come lo IOR-Malacalza e l’Humanitas con un forte rilancio economico (405 milioni per un debito dell’ospedale ben superiore al miliardo).

Dopo aver elencato i meriti indubbi del San Raffaele e del suo fondatore don Verzé, relativamente alla qualità dell’assistenza, della ricerca e della didattica integrate, e dopo aver espresso una valutazione fortemente critica sulle cause indifendibili che avevano portato al dissesto finanziario, concludevo citando Orazio a proposito della conquista della Grecia da parte dei romani: Graecia capta ferum victorem cepit… et artes intulit agresti Latio (Orazio, Epist. II, 1, 156): “La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore … e le arti portò nel Lazio agreste”.

E proseguivo con un auspicio: “C’è da augurarsi, mutatis mutandis e riconoscendo ai contemporanei conquistatori una ovvia, differente identità rispetto a quella belluina e agreste dei romani, che una cross fertilization possa avvenire fra la qualità del San Raffaele e la quantità/efficienza del gruppo Rotelli”.

Fino a venerdì 10 maggio 2013 ho temuto che quest’auspicio non si verificasse e che altre più infauste profezie potessero realizzarsi. Basta ripercorrere alcuni dei titoli di giornale degli ultimi mesi, relativi ai due eventi più acuti: vertenza sindacale per i licenziamenti; vertenza dell’università e relative occupazioni da parte degli studenti.

Chi avesse percorso in quei giorni il piazzale dell’ospedale pieno di tende da campo e striscioni di protesta, o gli eterei e aulici locali dell’Università “profanati” da rotoli di carta igienica avvolgenti il monumentale modello di DNA che vi campeggia (ah, il “sacro” Ciborio di don Verzé!), avrebbe avuto l’impressione di essere precipitato indietro in improbabili atmosfere sessantottine, per non scomodare immagini di rivoluzioni più nobili e più lontane nel tempo e nello spazio. Non entrerò nel merito della vertenza sindacale ospedaliera, più complessa di quella universitaria e con una serie di variabili economico-gestionali che non conosco a fondo. Mi auguro soltanto che le rappresentanze sindacali vogliano, in futuro, non limitarsi a perseguire la più che legittima difesa dei posti di lavoro, obiettivo oggi giustamente prioritario che hanno realizzato (e che in questa settimana è sottoposto, con le condizioni di contorno, all’approvazione delle assemblee dei dipendenti). I sindacati dovrebbero avere la capacità di stabilire con la proprietà relazioni che vedano il personale come protagonista della nuova progettazione e del rilancio di cui non solo il San Raffaele, ma probabilmente l’intero gruppo San Donato avrà bisogno. Atteggiamenti massimalisti e ribellistici, come quelli che hanno portato al rifiuto del primo accordo (forse sommatisi anche a visioni egoistiche e qualunquiste da parte di altri dipendenti) non portano, di questi tempi, da nessuna parte. È fin troppo ovvio rimarcare che la gestione di una struttura ospedaliera non equivale a quella di una catena di supermercati. Se la professionalità e il ruolo dei dipendenti sono importanti pure in quei contesti, nella sanità la preoccupazione primaria di tutti coloro che vi lavorano, e quindi anche della proprietà, deve essere che i dipendenti non solo perseguano i massimi livelli di competenza e professionalità, ma che possano anche raggiungere i massimi livelli di soddisfazione e di sicurezza. I dipendenti e le loro organizzazioni, non solo quelle del “comparto” ma anche quelle dei medici, dovrebbero essere, nel rispetto dei ruoli, co-protagonisti del nuovo sviluppo e della crescita.

Le variabili in gioco e da tenere presenti sono molte, e non certo limitate alle dinamiche interne al Gruppo San Donato: la crisi economica, le risorse progressivamente carenti per la sanità in genere, la necessità di una più lungimirante regolamentazione e articolazione del rapporto pubblico-privato, l’evoluzione tecnologica, le esigenze e le richieste crescenti dei pazienti e delle persone. Proprio grazie all’acquisizione del San Raffaele, che è un insieme con caratteristiche originali ben differenti da quelle delle strutture finora possedute e gestite, il Gruppo San Donato si troverà a dover rivedere a fondo il proprio significato e il proprio ruolo nella sanità, non solo lombarda ma europea. Il quarto o quinto più importante gruppo privato della sanità in Europa dovrà ripensare la propria immagine e la propria vision, in una logica integrata e di sinergia, che vada dalla sua più periferica casa di cura al più grande e rinomato neo acquisito San Raffaele. Superata l’attuale emergenza e transizione, andrà approntato un nuovo piano industriale, affrontando non pochi problemi, dall’obsolescenza tecnologica alla duplicazione e moltiplicazione non necessaria di attività e prestazioni. Basti pensare alla possibile centralizzazione dei laboratori di analisi, alla messa in rete delle attività diagnostiche radiologiche e delle prenotazioni, al coordinamento centralizzato delle attività d’urgenza e di Pronto Soccorso, alla possibilità di destinare specifiche strutture esclusivamente ad attività di day surgery o day hospital, etc.etc. Tutto ciò non si fa senza la partecipazione e il coinvolgimento del personale. Su questo terreno può già avvenire la cross-fertilization. La consuetudine di coinvolgere e responsabilizzare i medici nella programmazione e nella realizzazione di budget era sufficientemente consolidata al San Raffaele in diversi organismi, dal Collegio dei Clinici al tavolo dei Direttori di Dipartimento, anche se con alti e bassi nell’attuazione e nei risultati. Tale consuetudine andrebbe non solo ripresa, ma probabilmente ripensata su scala più ampia, coinvolgendo l’intero gruppo. E’ evidente che poiché la maggioranza dei Primari del San Raffaele, e dei direttori di Dipartimento sono professori Universitari, questo processo non potrà non coinvolgere l’Università.

Veniamo quindi all’Università e alla recentissima conclusione positiva della prima tappa del conflitto con la proprietà dell’ospedale. Il conflitto è stato durissimo, con rigidità e “atti di imperio” da entrambe le parti. Non ha contribuito a semplificare le cose la disdetta della convenzione con l’Università da parte dell’ospedale da un lato, e la blindatura del Consiglio di amministrazione dell’Università da parte dell’associazione Monte Tabor dall’altro. Si era arrivati a una sorta d’incomunicabilità, al rischio di un conflitto che avrebbe potuto concludersi con la sconfitta di uno dei due contendenti, con il rischio della rovina dell’università e/o dell’ospedale. Grandi timori si andavano manifestando da parte degli studenti, degli specializzandi e delle loro famiglie per l’incertezza sul futuro del loro percorso formativo. Timori cominciavano a farsi strada fra i pazienti per il rischio di un progressivo degrado e di un temuto scadimento della qualità dell’assistenza. Né contribuiva a favorire una soluzione il fatto che l’intera Facoltà di Medicina si fosse schierata per una parte, anziché agire da protagonista autonomo e indipendente, producendo idee innovative e proposte concrete di crescita e cambiamento. Mal interpretando e non comprendendo neppure il ruolo del Rettore, che per non aver voluto sostenere una parte contro l’altra ma per aver cercato la mediazione con l’obiettivo di difendere l’autonomia e l’identità dell’Università aveva finito per essere criticato e isolato da tutti. Con la firma in prefettura dell’accordo del 10 maggio ha prevalso il buon senso, grazie alla ragionevolezza delle parti in causa, “sigille” e amministrazione ospedaliera in primo luogo e grazie all’intelligente mediazione del ministro Maria Chiara Carrozza e del Capo di Gabinetto Luigi Fiorentino. E di tutti coloro che hanno esercitato da varie direzioni un’azione di moral suasion non sposando la linea del crucifige ma quella della ricerca dell’accordo e del compromesso per salvare un indubbio patrimonio “pubblico” di scienza e di cultura. Era legittimo il desiderio della Associazione Monte Tabor, e quindi delle “sigille”, di non essere emarginate dalla gestione dell’Università e dalla possibilità di verificare e controllare che gli indirizzi del progetto ispiratore cui hanno dedicato l’esistenza, non venissero stravolti o abbandonati. Era legittimo il desiderio della proprietà dell’ospedale di poter partecipare all’organo di governo di un’istituzione da cui dipende la stragrande maggioranza dei primari, e che si avvale delle sue strutture sanitarie per la formazione clinica degli studenti e degli specializzandi. Il ministro ha scelto quindi la strada della tregua, della soluzione ponte con un armistizio che duri fino al 2014, avendo ottenuto l’assenso e la firma delle parti per un consiglio di amministrazione rinnovato e misto.

Il nuovo CdA, composto di 9 membri, 5 indicati dall’associazione Monte Tabor fra cui il presidente Roberto Mazzotta, proposto dalle “sigille” con il gradimento dell’ospedale, 3 indicati dall’ospedale, più il Rettore dell’Università, potrà lavorare in relativa serenità fino all’ottobre del 2014. Fino a tale data infatti il ministero garantisce la regolare attività dell’Università assegnando i posti per gli studenti e gli specializzandi, e l’ospedale mantiene in essere la convenzione che consente l’utilizzo delle sue strutture a scopo didattico. Studenti e pazienti possono quindi riprendere con serenità i loro percorsi, peraltro mai interrotti e mai realmente messi a repentaglio.

Quale è ora il compito del CdA-ponte in quest’anno e mezzo? A mio modo di vedere è un compito stimolante e affascinante: passare dall’armistizio alla pace disegnando un modello di nuova governance per l’Università, alla luce della nuova realtà ospedaliera che ha a disposizione strutture raddoppiate e articolate. Sarà utile e necessario, per l’inevitabile riscrittura dello statuto, studiare statuti di realtà simili, in Italia e nel mondo, per creare a regime un CdA nuovo all’interno del quale si sviluppi una dialettica virtuosa e non paralizzante, fra i diversi interessi che dovranno legittimamente coesistere ed essere rappresentati: quello dei fondatori, quello dell’Università, del corpo docente e degli studenti, dell’ospedale, di enti quali la Regione, eventuali istituti di ricerca etc. Nei secoli passati non poche università americane originarono da lungimiranti padri fondatori filantropi, da visionari leader di sette religiose, da gruppi omogenei di “pionieri”. Queste università, cui oggi si guarda come modelli, sono entrate nella modernità e sono divenute autonome, libere, dandosi statuti e forme di governance rispettose dei vari interessi, vecchi e nuovi.

Contestualmente all’impegno del CdA per l’elaborazione del nuovo statuto, i docenti dell’ateneo dovrebbero entrare in una sorta di fase costituente per ripensare e rielaborare la mission e la vision dell’Ateneo alla luce della nuova realtà. Non è certo questa la sede per fare proposte ma mi permetto di suggerire ai membri della Facoltà di immaginare le opportunità che si aprono, disponendo di una struttura ospedaliera così ampia e articolata, per ripensare il modello didattico formativo. Si ponga, l’attuale Facoltà, con entusiasmo, passione e coraggio come soggetto interessato in prima persona a rinnovare e rilanciare un progetto che è stato vincente.

Ripercorra, l’attuale Facoltà, i verbali delle diecine di riunioni che hanno visto un ristretto gruppo di docenti impegnati nell’elaborazione dell’innovativo programma della Facoltà di Medicina nel 1997. Nessuna ipotesi era stata allora trascurata, i curricula più avanzati delle più importanti università americane ed europee, da Harvard a Maastricht erano stati attentamente analizzati, discussi, recepiti e anche, talora, superati. Per arrivare a disegnare non una nuova università ma una “Università Nuova”. “Discutete, proponete, accapigliatevi se occorre, ma avanti tutta sull’impostazione della Facoltà Medica San Raffaele” diceva don Verzé. Si recuperi quello spirito, si faccia un’epicrisi lucida, onesta, anche spietata dei risultati conseguiti, ed eventualmente degli obbiettivi mancati, in questi quindici anni. E si riparta con un progetto rinnovato, capace di rilanciare il concetto di Scuola di Medicina, di physician scientist, d’integrazione con le facoltà di filosofia e psicologia, in un’Università libera e viva. E si salvaguardi e si potenzi l’inestimabile patrimonio costituito dalle strutture di ricerca, dalle centinaia di ricercatori, dalla esperienza della ricerca transnazionale. Quello della ricerca scientifica in campo biomedico è un settore che andrebbe rivisto con un’ottica in grado di superare i confini del gruppo, che sappia individuare sinergie con altri centri di ricerca di cui la Lombardia è ricca. Si rifletta anche sull’interessante novità, passata troppo sotto silenzio, relativa alla decisione di creare finalmente anche in Italia una lista nazionale d’idonei ai test di ammissione alle Facoltà a numero chiuso e quindi anche alla Facoltà di Medicina. La lista nazionale consente agli studenti classificati di scegliere l’università che preferiscono e la scelta di solito favorisce le università migliori. Questa metodologia è in vigore da decenni negli Stati Uniti, e ha creato non solo una grande mobilità degli studenti ma anche una competizione virtuosa fra università per attrarre, con la qualità, gli studenti migliori. Si rifletta sull’opportunità di entrare in questo circuito, accettando di fare i test di ammissione assieme a tutte le altre università pubbliche, anziché separatamente, nell’illusione di lucrare sulla doppia opportunità offerta agli studenti. Mi si consenta in conclusione di richiedere che sia fatta definitivamente chiarezza su una vicenda per lo meno ambigua, quella della fantomatica charity dal nome Marcus Vitruvius Foundation. Fino a che questa vicenda non sarà chiarita, chi se n’è fatto promotore non avrà credibilità nel presentarsi come paladino del nuovo e dell’autonomia dell’università.

La funzione pedagogica di un docente universitario non si svolge solo nelle aule in cui s’impartiscono lezioni frontali agli studenti. È dal comportamento personale, dalla coerenza e trasparenza delle scelte dei “maestri”, che gli studenti imparano non solo a saper fare, ma anche a saper essere.

 

Giuseppe Scotti

 

 



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