11 maggio 2009

LETTERA APERTA SULLA SALUTE MANTALE


Il trentennale della legge 180/78 è stato ricordato molto sommessamente, non solo in Lombardia, eppure si è trattato di un cambiamento epocale in cui noi ci riconosciamo, per la cui realizzazione molti di noi hanno lottato. Il clima culturale oggi è molto cambiato: le persone diverse, non integrate o svantaggiate suscitano sospetto e paura, non certo impegno per dar loro cittadinanza e diventano i nuovi capri espiatori di molti problemi non affrontati.

Riteniamo invece che l’impianto e lo spirito della L.180/78 siano da difendere con decisione. Ciò non vuol dire naturalmente che, a distanza di trent’anni, non siano possibili o anche opportuni cambiamenti o integrazioni di alcuni aspetti della legge. Questi però devono servire a migliorarla e non a stravolgerla, come invece si propongono i vari progetti di modifica giacenti in parlamento. Siamo contrari ad ampliare tempi e luoghi dei trattamenti obbligatori: già ora, nei casi che lo richiedono, il TSO può essere prorogato anche a lungo, purchè la richiesta venga motivata. Estenderlo a strutture private convenzionate renderebbe incerte le garanzie contro eventuali abusi e ridurrebbe le certezze sugli standard di qualità professionale.

A livello regionale, pur in una linea complessiva di applicazione della legge e di adeguamento per certi versi alle mutate condizioni (nuove patologie, nuove fasce di popolazione a rischio, strategie riabilitative differenziate, ecc.) la soppressione dell’Ufficio Psichiatria ha comportato pesanti conseguenze. Si è persa una dimensione di specificità, indispensabile per salvaguardare l’identità della psichiatria e il suo mandato. Il campo della psichiatria è stato attratto inevitabilmente nell’area medica, senza mantenere il necessario rilievo alla componente psicologica né a quella sociale, misconoscendo in tal modo il paradigma biopsicosociale.

Tutto questo si è manifestato compiutamente a livello istituzionale col passaggio nel 1998 dalle USSL agli Ospedali. La dimensione comunitaria e territoriale del nostro lavoro è stata profondamente mortificata, accentuando a dismisura gli aspetti ospedalieri, il ricovero, i trattamenti farmacologici, a discapito degli aspetti preventivi, di diagnosi precoce, trattamento intensivo integrato, intervento domiciliare, sostegno alla famiglia, coinvolgimento delle agenzie e risorse della comunità. Quanti primari lavorano regolarmente anche fuori dall’ospedale? Quanti direttori generali, sanitari e amministrativi sono veramente informati e coinvolti in questi aspetti dell’operare psichiatrico?

Conseguenza di tutto ciò è la sopravvalutazione degli SPDC (che peraltro funzionano spesso a livelli qualitativi deplorevoli) con costante sottovalutazione e di conseguenza sotto-dimensionamento, riduzione di personale o talora chiusura dei servizi collocati nel territorio. Ad esempio molti CPS della città di Milano sono in condizioni scandalose, sia ambientali che di personale e di accessibilità, con pesanti conseguenze sulla qualità ma anche sui rischi. Di tale stato di degrado e incuria sarebbe troppo facile attribuire interamente la responsabilità alle aziende: tutti gli operatori coinvolti, ma specialmente chi dirige i servizi, ne condividono la responsabilità.

Lo scarso coinvolgimento delle direzioni Generali e sanitarie nelle nostre specifiche necessità , insomma lo scarso peso della psichiatria, comporta anche un’attenzione insufficiente verso i rischi dell’operare psichiatrico: sia quelli che gli operatori corrono fisicamente nel quotidiano (si pensi ai molti P.S. ospedalieri, in cui lo psichiatra lavora spesso senza infermieri), sia quelli di essere incriminati per imprudenza, imperizia, negligenza, e ora anche per non aver svolto adeguatamente la cosiddetta “funzione di garanzia” nei confronti dei malati gravi.

La nostra collocazione nell’Azienda Ospedaliera ha comportato distorsioni di vario tipo, anzitutto economiche. Anche la psichiatria è stata forzata ad entrare nel meccanismo del finanziamento a prestazione e del rimborso ospedaliero a DRG. Accenniamo soltanto all’enorme quantità di tempo usata dagli operatori per queste rendicontazioni, alla perdita di centralità del lavoro clinico di buona qualità, allo spostamento reale o fittizio verso le attività meglio remunerate, alle distorsioni diagnostiche, e così via.

Ma, nonostante gli sforzi delle Unità Operative, il nostro settore resta uno dei meno vantaggiosi e meno remunerativi per le aziende, stando alla rigida logica budgetaria voluta dalla Regione, e come tale viene trattato. Con questo, non si vuole negare la doverosa attenzione alla gestione delle risorse e alla valutazione delle priorità, anche nell’ottica del rapporto costi/benefici; né si intende misconoscere la necessità di operare in modo efficace ed efficiente, misurando le proprie attività. Quel che ci pare necessario, dopo dieci anni di aziendalismo, è di evitare gli eccessi e ricalibrare tutto l’impianto.

Ma la dimensione aziendale comporta anche obblighi di fedeltà e obbedienza che in passato erano sconosciuti. Se vi sono errori gravi, omissioni, inadempienze, la tendenza è quella di attenuare, sopire, troncare: ne va del buon nome aziendale. Non parliamo poi di rapporti coi giornalisti e interventi sulla stampa, strettamente riservati all’URP e alla Direzione: per queste cose ora si rischiano sanzioni e penalizzazioni a livello di carriera.

Da tutto ciò a un clima timoroso e omertoso il passo è breve e ci si avvia facilmente al reclutamento degli operatori per appartenenza ideologico-politica. I direttori generali sono già ora, ufficialmente, espressione dei partiti della maggioranza regionale. I primari già da tempo hanno cominciato a diventarlo, salvo alcune eccezioni. Gli altri operatori faranno bene ad adeguarsi.

Ma la psichiatria deve fronteggiare altri colpi, questa volta a livello nazionale (ovviamente, con ripercussioni locali). Si tratta della forsennata campagna politica e mediatica, tesa a drammatizzare la pericolosità sociale di tutti i soggetti marginali e a enfatizzare il rischio connesso alla devianza: dalla delinquenza ai rom ai malati mentali il passo è piuttosto breve. Perciò oggi ci si muove verso la ri-attribuzione ai servizi psichiatrici di un prevalente mandato di controllo e non di cura, per quanto concerne i malati impegnativi; agli psichiatri verranno sempre più richieste competenze ed attività criminologiche, piuttosto che cliniche e riabilitative. Di conseguenza atteggiamenti di identificazione col paziente, comprensione del suo disagio ed empatia potranno essere considerate pericolose debolezze, da cui guardarsi con cura!

A questo proposito non raccomandiamo alcun “buonismo”, né altre ingenuità o negazione degli aspetti violenti o aggressivi a volte connessi ai disturbi mentali. Crediamo che sia indispensabile una collaborazione intensa e continua con la polizia locale e le altre forze dell’ordine, soprattutto a scopo preventivo, dando però a ciascuno il suo e distinguendo chiaramente le competenze, pur in uno sforzo di grande integrazione: evitando cioè che disagio sociale e devianza vengano impropriamente delegati alla psichiatria, ovviamente con la richiesta di sfoderare i suoi strumenti di intervento coattivo.

Occorre poi contrapporsi in modo netto, attivo e propositivo agli orientamenti culturali, politici e tecnici che oggi ripropongono con forza la paura per il diverso, l’allontanamento dell’estraneo, la separazione e reclusione del malato, giustificando queste scelte conservatrici con le esigenze di sicurezza dei cittadini italiani “normali e bene integrati”. Quanto alla tendenza attuale di attribuire alla psichiatria compiti crescenti di tutela dell’ordine sociale e un prevalente profilo criminologico, occorre ricordare e far capire a tutti che ciò finisce per escludere un vero lavoro clinico-terapeutico e riabilitativo. Su tutto questo occorrerà incrementare il confronto, sempre difficile e molto sporadico, col mondo della giustizia.

Ci aspetta, per cominciare, un grande lavoro culturale. Il restringimento di orizzonte della ricerca e cultura psichiatriche è innegabile: basti pensare che da anni il DSM IV è utilizzato come testo-base per gli studenti e specializzandi in psichiatria. Da anni la presenza e il peso delle case farmaceutiche e della dimensione farmacologia, grazie anche a indiscutibili successi, non fa che aumentare; le proposte dell’industria sono accolte in modo spesso acritico, come se fossero “la” soluzione ai problemi della malattia mentale. Ogni anno viene individuata una nuova sindrome, da trattare ovviamente con una specifica categoria di farmaci, e così via. La formazione, soprattutto ma non esclusivamente quella degli psichiatri, grazie anche alla riduzione delle risorse destinate dai servizi pubblici, è in larga misura gestita dalle case farmaceutiche

Occorre ridare attenzione alla dimensione interiore e personale della sofferenza, che la connota come umana e quindi familiare a ciascuno di noi. Occorre soprattutto sviluppare, anche nel dibattito sociale e nei confronti dell’opinione pubblica, quelle riflessioni e quelle tematiche che rifiutano il semplicismo delle etichette, cercando di dare un senso ai nuovi fenomeni sociali: immigrazione, non-integrazione, multi-culturalismo, razzismo strisciante o esplicito, isolamento, paura, situazione femminile, crisi economica e disoccupazione, insicurezza, uso generalizzato di sostanze stupefacenti, adeguamento al conformismo mediatico, consumismo sfrenato, crisi della famiglia, integralismi di ogni sorta, intolleranza, religioni usate come difese identitarie, localismi esasperati, e così via.

Si obietterà che questa non è psichiatria ma sociologia; ma non potremo difendere la nostra idea di fare psichiatria se ci faremo rinchiudere in un orticello minimalista, oggi quasi solo farmacologico.

Un grave ostacolo al cambiamento è la scarsa capacità di confronto e di azione comune, soprattutto da parte degli operatori. Di fatto, non esistono più luoghi di reale aggregazione (sindacato, associazioni professionali, gruppi rappresentativi) in cui la maggior parte si riconosca, mentre i momenti di incontro istituzionali sono sempre più formali, aridi e spesso condotti con modalità autoritarie. Sicuramente vi è un po’ più di vitalità nelle associazioni dei familiari e in quelle di volontariato, mentre le associazioni degli utenti sono allo stato nascente; ma tutte queste realtà sono fortemente parcellizzate e si confrontano assai poco fra di loro.

Non riteniamo opportuno, per favorire il risveglio che auspichiamo, costituire nuovi gruppi formalizzati e nuove associazioni. Occorre invece individuare nuove forme di dialogo e di confronto, agili ed efficaci, veloci e non burocratiche (che ne pensate di un sito on-line?), che portino poi a periodici momenti di incontro, a orientamenti largamente condivisi, a iniziative anche pratiche. Su tutto questo desideriamo sentire i suggerimenti di tutti, e attendiamo quindi le vostre risposte e proposte.

 

Germana Agnetti, Antonio Amatulli, Maria Antonietta Bàlzola, Angelo Barbato, Stefania Borghetti, Emanuela Cafiso, Massimo Cirri, Eugenia Crimi, Arcadio Erlicher, Emilio Fava, Elisabetta Franciosi, Maria Frova, Marco Goglio, Giorgio Legnani, Renato Longoni, Spiridione Masaraki, Cinzia Masserini, Umberto Mazza, Paolo Mori, Fiammetta Negri, Roberto Pasquino, Daniele Piacentini, Pasquale Pismataro, Gianfranco Pittini, Edoardo Razzini, Edoardo Re, Augusto Righi, Serena Rugge, Angela Ruggeri, Giorgio Scorza, Michele Stuflesser, Guido Taidelli, Riccardo Telleschi, Enrico Varrani, Giovanna Zardini.

 

Milano, Marzo 2009

 

Inviare le adesioni a:

gianfranco.pittini@tele2.it

Angelo Barbato, Unità di Epidemiologia e Psichiatria Sociale, Via La Masa 19, 20156 Milano, Tel. 02-39014431, Fax 02-39014300

 

In data 18.3.2009 sono pervenute le adesioni di: Vittorio Bulbarelli, Paolo Bertagni, Rocco Geraci.


 



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