1 maggio 2013

TUNNEL DI MONZA: UNA MODERNITÀ A MISURA DI MEDIOCRE


Mentre anche il Social Forum globale di Tunisi si pronuncia giustamente in modo critico sulle grandi opere autoritarie e inutili, l’operosa metropoli lombarda si osserva stupita l’ombelico, e rischia di soffocare: viaggio nel nuovo tunnel autostradale di Monza.

L’urbanista, come insinuano mica troppo sottilmente i grandi flussi di comunicazione di massa, è in fondo una specie di narratore folcloristico novecentesco, roba buona per le sagre paesane, quando attorno a una tavolata di vino e salame a filiera corta equi e solidali si rievoca il tempo che fu. Quando si facevano quei piani superati dalla storia, e giustamente soppiantati poi dalla misura d’uomo, dal diritto del cittadino, dall’efficienza dello sviluppo del territorio, dalle misure urgenti per superare la crisi senza dimenticare l’equità sociale. Il tutto in una prospettiva di sostenibilità, lotta al consumo di suolo, rispetto per l’ambiente eccetera eccetera. Quindi, ciò premesso, quanto segue è solo folklore per bambini curiosi, mica roba seria, che lasciamo agli ingegneri trasportisti sostenibili e ai conti delle imprese di grandi costruzioni.

Qualche giorno fa sul presto, dato che mi si era tranciato in due per la seconda volta il telaio della bici (la spesa moderna da supermarket nei cestini esercita una leva pari al peso del reddito spostato) sono uscito in macchina. E già che c’ero mi sono preso una vacanzina sul territorio metropolitano, andando a curiosare dentro la nuova Grande Opera che il mondo ci invidia, il tunnel che scavalcando l’abitato di Monza promettevano avrebbe dato senso a un cartello piazzato orgogliosamente parecchio più a nord: Roma Km 600. L’incongrua segnalazione fa umoristica mostra di sé là dove scendendo con orgogliosa sicurezza dalle valli alpine confluiscono i tracciati della SS38 dello Stelvio e della SS36 dello Spluga. Peccato che da lì a Roma, nonostante la biblica promessa e lo sforacchiamento miliardario di tutto un versante prealpino, della città di Lecco, di una montagna subito dopo, ci fossero di mezzo un paio di semafori. Il marinettiano futurista del terzo millennio si sentiva già scagliato zang-tumb-tumb verso l’ineluttabile destino della Capitale, e si ritrovava invece obbligato a inchiodare davanti a una casalinga e un pensionato brianzoli col sacchettino della spesa, intenti al gesto sacrilego di attraversare sulle strisce. 

Benvenuti a Monza, di cui lo scomparso Califano cantava che “la gente fa gara a chi è più stronza“. Per esempio piazzando dei semafori tra l’automobilista moderno e l’anello delle tangenziali milanesi. Semafori che facevano quotidianamente incolonnare per chilometri mezzi a motore di varie stazze e potenze di inquinamento, accumulando veleni poi inopinatamente aspirati anche dalla casalinga, dal pensionato col sacchetto della spesa, e dai loro parenti che risiedono nei quartieri affacciati sulle otto corsie del cosiddetto tratto urbano. Giustamente i parenti tutti, insieme alle loro vie respiratorie, non erano entusiasti della situazione, e uniti in lobby democratica e sostenibile hanno dato ulteriore impulso a un progetto che era nell’aria da tempo: un megatunnel (in qualche modo gemello di quanto già sforacchiato a Lecco anni fa) sotto i quartieri semisoffocati, che finalmente sbolognasse il serpentone semovibile là dove deve andare, ovvero nella rete autostradale metropolitana, magari per scagliarsi poi proprio verso Roma Km 600 meno qualcosa.

Dopo alcuni anni, e revisioni in corso d’opera, la suddetta opera è stata inaugurata agli inizi di aprile dal neogovernatore padano Maroni e notabili vari, e insieme ai comuni mortali mi ci sono cacciato dentro anch’io, per vedere di nascosto l’effetto che fa. Scoprendo che, come hanno riferito e continuano a riferire gli organi di informazione, superata la strettoia se ne è subito creata un’altra, peggio della prima perché il tunnel funge un po’ da canna di fucile, concentrando il fuoco sulle carenze del tracciato che già esistevano. Dicono un’ecatombe, e in effetti stare intrappolati dentro una galleria per tanto, tanto tempo, sperando di tornare e riveder le stelle, non è carino, era quasi meglio il semaforo con lo spettacolo della signora Maria intenta a guardarsi la punta delle scarpe inzaccherata. Ora speriamo che i supertecnici facciano cadere anche l’ultimo diaframma verso le tangenziali, ma sospetto che poi sarà là dentro che si scarica il casino suppletivo, con richiesta di nuove corsie, nuove tangenziali esterne a quelle esterne … Ma torniamo indietro, nello spazio e nel tempo.

Nello spazio, percorrendo il tunnel al contrario, se ne scopre una funzione abbastanza interessante: ci sono un centro commerciale con ancora Auchan all’estremità meridionale, e un centro commerciale con ancora Auchan allo sbocco settentrionale. La grande opera miliardaria verrebbe così a configurarsi come meta-shopping mall virtuale, delineando nuove frontiere del consumo e dell’esperienza commerciale a orientamento automobilistico per il terzo millennio. Oltre ad andare a ritroso nello spazio, ovvero giusto risalire un po’ in disordine e con poca speranza la SS36, si può però anche andare indietro nel tempo usando il desueto metodo urbanistico. Al 1933 ad esempio: ah, memorabile quell’anno!

Quando nel pieno della modernizzazione fascista-futurista del paese i giovani virgulti dell’intellighenzia nazionale adottavano il meglio del dibattito internazionale sulle città, ad esempio aderendo ai nascenti CIAM di Le Corbusier. I quali congressi di architettura moderna, come abbastanza noto, divulgavano una modellistica territoriale magari a posteriori discutibile, ma senza dubbio dotata di senso: una città ordinata, relativamente divisa per funzioni e spazi specializzati, e distesa sul territorio secondo schemi efficienti. Per esempio organizzando l’espansione per quartieri autosufficienti, separati dal centro attraverso cunei e fasce a verde a evitare piccole conurbazioni, e con le infrastrutture stradali concepite organicamente dentro questo disegno. Al concorso per il piano regolatore di Monza bandito in quel fatidico 1933 vinse il progetto del gruppo coordinato da Aldo Putelli, architetto già inserito nel gruppo del Piano Provinciale milanese per l’Abitazione Operaia, e in seguito nel famoso Piano AR. Il suo era un piano di schietta matrice razionalista.

Progetto vincitore del Concorso di Piano Regolatore 1933 (dal sito Rete Archivi Piani Urbanistici) Senza entrare troppo nei particolari, lo schema territoriale si organizzava per quartieri satellite, attestati su una circonvallazione stradale di raccordo con le reti regionali. Guardando quel disegno, molto abbozzato come si addice all’elaborato di un concorso, salta abbastanza all’occhio allenato un’anomalia, rispetto alle carte contemporanee: l’asse della nuova Milano Lecco (prolungamento dell’idea Pirelli di inizio secolo per un corridoio regionale industriale) non è più attestato esclusivamente sul tracciato che separa alcuni quartieri dal centro e interferisce con le aree monumentali della Villa e dei Giardini Reali. Quell’asse ha invece un suo doppione esterno, pronto a trasformarsi in percorso principale, e poi ad articolarsi verso nord su almeno tre direttrici. Siamo all’alba della cosiddetta pianificazione metropolitana/regionale, e non è dato di sapere quale consistenza reale abbia quel pur vistoso segno sulla mappa, ma lo schema è perfettamente coerente e il tracciato pure, a scala comunale e provinciale.

Quello “stradone” nei decenni avrebbe potuto ad esempio guarnirsi di polverosi guard-rail, piazzali di sosta per il rifornimento di benzina, occasionali sovrappassi in corrispondenza delle vie intercomunali, o che diavolo d’altro. Non un eden o terra promessa, quindi, solo una stramaledetta ennesima superstrada detestabile per il fracasso, l’inquinamento, ma arteria che alimenta le attività dell’operosa Brianza e più oltre collega direttamente i flussi economici della fascia alpina al core metropolitano milanese. Soprattutto avrebbe svolto il suo ruolo, quell’asse viario, senza tagliar fuori una fetta di città dal resto dell’insediamento, visto che nel disegno si capisce benissimo l’organizzazione dei quartieri satellite e il loro rapporto coi nuclei storici, centrale e secondari. E il tunnel? Sarebbe servito il tunnel? Domanda retorica. Qui viene davvero da dire: “il problema è un altro”. E si lascia la risposta al lettore, ricordando che la pianificazione territoriale è roba folcloristica, superata, novecentesca, da raccontare ai bambini curiosi attorno al fuoco. Che oggi i problemi si risolvono a misura d’uomo, sostenibile, equa e solidale. Che chissà cosa vuol dire, ma intanto ci teniamo il tunnel e i nuovi problemi che ha creato puntualmente all’altra estremità.

 

Fabrizio Bottini

 

 

(già pubblicato su www. eddyburg.it)



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