1 maggio 2013

musica


 

LA FILARMONICA DELLA SCALA

Non siamo abbonati alle stagioni scaligere, le frequentiamo con una certa saltuarietà, e forse è per questa ragione che – più distaccati rispetto agli habituées – ci rendiamo conto di come l’orchestra Filarmonica, nata trent’anni fa dalla costola dell’orchestra del teatro lirico per specializzarsi nel repertorio sinfonico e rimasta sempre sua parente prossima, di anno in anno si allontani visibilmente dalle originarie condizioni di eccellenza.

Possiamo pensare quello che vogliamo di Claudio Abbado che l’ha fondata e diretta per i primi cinque anni, o di Riccardo Muti che ne è stato il direttore principali per altri diciotto anni, ma non possiamo nasconderci che con la continuità del loro lavoro, fino a quando ci sono stati, hanno ottenuto dall’orchestra una disciplina e un affiatamento che, da otto anni a questa parte, sono via via scemate facendola scadere nella pigrizia, nell’anarchia, nel disinteresse.

L’orchestra che ha preso dai Wiener Philharmoniker le regole costitutive e dai Berliner Philharmoniker l’ambizione a essere un’eccellenza (non a caso Abbado è passato da Milano a Vienna e poi a Berlino), sembra aver tratto ben poco profitto da entrambi gli esempi; coloro che hanno la ventura di ascoltare e mettere a confronto le tre orchestre, il loro suono, la loro precisione, la duttilità e la prontezza nel rispondere alle sollecitazione dei direttori, sono unanimi nel giudizio: l’orchestra milanese è lontana miglia e miglia dalla qualità dell’orchestra austriaca e ancor più da quella tedesca.

Dal 1990, con il cambio della guardia alla Scala, è cambiato anche lo statuto della Filarmonica: il presidente non è più il competente Sovrintendente del Teatro ma il compito è stato affidato dapprima a Fedele Confalonieri – il noto accompagnatore al pianoforte del giovane cantante e cabarettista Silvio Berlusconi (anche se recentemente si è santificato con un senile diploma al Conservatorio milanese) – poi a Cesare Rimini, altrettanto noto avvocato divorzista delle famiglie bene di Milano e infine all’amministratore delegato di Unicredit (proprio così, potenza delle sponsorizzazioni!); la vicepresidenza, che coincide più o meno informalmente con la direzione artistica che fu per anni gestita da Carlo Fontana, ha visto avvicendarsi vari professori della stessa orchestra come il violinista Ernesto Schiavi, l’oboista Francesco Di Rosa, e ora il trombonista Renato Filisetti. Dal punto di vista artistico possiamo dunque dire che la Filarmonica è una orchestra autogestita come avveniva nel settecento e fino a metà dell’ottocento, quando la direzione dell’orchestra era compito del primo violino.

Ma per quale maledizione i milanesi, che hanno il più celebre teatro dell’opera del mondo intero, un Conservatorio di tutto rispetto, tradizioni che vengono da secoli di storia della musica, una città amata dai più grandi musicisti del pianeta, non capiscono l’importanza di avere un’orchestra sinfonica che si rispetti? (anche se, l’abbiamo detto molte volte e non solo noi, un’ottima orchestra ce l’hanno ma lo sanno in pochi: quell’Orchestra Verdi che svolge un denso e magnifico programma all’Auditorium di largo Mahler, che ha un pubblico affezionatissimo ed entusiasta, ma chissà perché nell’immaginario collettivo milanese resta – rispetto alla Scala – figlia di un dio minore).

Tornando alla Filarmonica l’altra sera abbiamo ascoltato un concerto che prometteva mirabilia: il Concerto per violoncello e orchestra in si minore opera 104 di Dvořák, una delle sue ultime opere “americane”, e due chicche di Richard Strauss come il poema sinfonico Don Juan e la suite del Rosenkavalier. Sul podio un giovane slovacco di Bratislava, Juraj Valčuha, al violoncello un giovanissimo solista armeno di Erevan, Narek Hakhnazaryan. Per chi come noi sostiene che solo dai giovani musicisti ormai ci si possono attendere grandi interpretazioni, il concerto non poteva promettere di più.

Difficile dire l’amaro in bocca: il direttore si è presto rivelato superficiale e privo della consapevolezza di ciò che stava eseguendo, il solista un ragazzo di venticinque anni vacuo ed esangue, con uno strumento sicuramente prezioso – un Tecchler del 1698 – adatto alla musica da camera ma non a farsi ascoltare in un teatro da quasi tremila posti. Curioso che uno slovacco e un armeno, figli di popoli così pieni di vita, siano apparsi invece così privi di temperamento.

La nota più critica, però, riguarda l’orchestra: sciatta, svogliata, attacchi imprecisi, poca volontà di assecondare e sostenere il direttore ospite. Una grande orchestra supplisce alla debolezza del direttore con saggezza, mette in gioco tutta la propria esperienza per aiutarlo a risolvere le situazioni più critiche, cerca di occultarne le insufficienze e le incertezze.

Persino il pubblico, sempre generoso alla Scala, è stato molto avaro nell’applaudire i lavori di Strauss. Ancora affettuoso e incoraggiante con il violoncellista, probabilmente in considerazione della sua giovane età, non si è poi speso per le sfilacciate esecuzioni dei poemi straussiani. Ci è rimasta una curiosità: chi sceglie, alla Filarmonica, i direttori e i solisti da invitare, l’amministratore delegato di Unicredit o il trombonista?

P.S. Ci è estremamente gradito riconoscere che il concerto successivo della Filarmonica diretto lunedì 29 dall’americano James Conlon con la partecipazione del violinista – anch’egli americano ma cresciuto e formatosi in Israele – Gil Shaham, ha avuto tutt’altro segno; sia il Concerto per violino e orchestra di Britten che la Quinta Sinfonia di Šostakovič, due opere peraltro meravigliose, sono state eseguite in modo encomiabile da tutti, orchestra compresa. Evidentemente i professori della Filarmonica per impegnarsi a fondo e far emergere le loro qualità hanno bisogno di misurarsi con direttori e solisti molto autorevoli e di adeguata professionalità. Non resta, ahimè, che prenderne atto.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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