24 aprile 2013

GIUDICARE I GIOVANI: IL BRAND EDIPICO È UN SEMPREVERDE


Avere degli schemi, più o meno essenziali, ma ferrei e radicati nella tradizione, è di grande conforto per chi li usa. E inoltre blandisce e rassicura, generando un sicuro successo. Gli schemi piacciono, specie quando confermano le semplificazioni, o quando possiedono un’intrinseca normatività. Oggi le opinioni prevalenti sono quasi sempre quelle che si avvalgono e si fondano su schemi ormai acquisiti, anche quando questi sono ampiamente superati o perlomeno contestati, confutati, criticati.

La dozzinalità delle opinioni dominanti, sapientemente amministrate da una piccola comunità di sedicenti esperti, spesso ormai arruolati nelle vesti appunto di opinionisti, è al limite dell’insostenibile. Eppure la norma che consente a un’opinione, oppure anche di un parere effettivamente esperto, di candidarsi a posizioni di diffusione dominanti, è proprio quella che impone di mostrare il suo radicamento in schemi riconoscibili, meglio se ampiamente riconosciuti, nonostante talora ampiamente in decadenza. Così assistiamo, sui giornali o comunque nei media, cioè sugli organi che poi effettivamente modellano le opinioni diffuse, alla ripetizione costante di tesi, sui più diversi argomenti, erette sopra una modesta serie di schemi in media vecchi di almeno cinquantanni se non di più.

Per quanto mi riguarda, occupandomi di tematiche legate all’educazione, non finisco mai di stupirmi nel leggere articoli o nell’ascoltare interviste o rubriche, come oggi si definiscono, a cura di riconosciuti esperti, che ripetono come un mantra letture di fenomeni innervate dallo stesso vetusto bagaglio di categorie della cui fondatezza, anche solo storica, vi sono ottime ragioni perlomeno di dubitare. Ma tutto questo non stupisce affatto. È una legge, una legge del potere, dei poteri, che si appoggiano sempre sulle letture facili, leggibili, e soprattutto rassicuranti.

Si prenda per esempio la proliferazione di articoli, interviste televisive, rubriche che hanno a oggetto i comportamenti giovanili. Qui oscilliamo spaventosamente tra letture puramente corrive, che attaccano la nuova ignoranza, il nuovo analfabetismo, la nuova violenza e così via (che di solito si appoggiano su rilievi statistici così riduttivi e capziosi da sfiorare la comicità: il 50% degli intervistati non conosce il significato della parola “usbergo” o cose del genere) a letture più colte e ampollose, sature di metafore e espressioni tecniche, che tuttavia confermano le medesime diagnosi, solo appoggiandosi su schemi sicuri. Sotto questo profilo, per esempio, mai come in questo periodo, è adoprato con indicibile sicumera lo schema del complesso d’Edipo come grimaldello per sentenziare più o meno a morte sulla nuova gioventù.

Dopo che per molti anni la psicoanalisi è stata piuttosto malvista nel mondo dell’opinione diffusa, oggi che è diventata una teoria normativa come un’altra, ecco che improvvisamente l’Edipo troneggia sui giornali anche più classicamente conservatori. E, si badi bene, non è un caso. Perché quando l’Edipo, – ormai un vero e proprio brand – che notoriamente ribadisce la necessità di figure genitoriali riconoscibili, di codici normativi cui sottostare, di castrazioni salvifiche e purtroppo non più somministrate con sufficiente tempismo, viene evocato, è tutta un’ideologia sociale molto precisa che viene implicitamente confermata. Un’ideologia sociale che rassicura molto che non gradisce lo sfaldarsi dell’autorità, della famiglia, dei confini tra ruoli e generazioni, il nomadismo sessuale e così via.

Allo stesso modo le diagnosi che, sempre sullo stesso terreno, enfatizzano, sempre in ragione delle frane edipiche, l’affermarsi di soggetti narcisisti, fragili, incapaci di elaborare i fallimenti e che dunque implicitamente reclamano il ritorno a una normatività più decisa, a una maggiore sorveglianza verso la nefasta deriva che conduce a scegliere il godimento anziché la fatica, è chiaro che tutto ciò non può che riempire di gioia chi si augura di poter amministrare soggetti più consapevoli del limite, del dovere, del sacrificio necessario a quella conformazione sociale cui non si sfugge senza pagare gravissimi prezzi.

Come dire: vecchi schemi e vecchie intramontabili politiche. Eppure sono decenni che si sono affermate, nei più diversi contesti disciplinari, dalla psicologia alla filosofia, alla sociologia all’antropologia, letture molto meno prescrittive intorno alla famiglia, sia sul fronte della contestazione dell’alone appunto ideologico e deterministico dell’impostazione edipica, sia sul fronte di forme di vita del tutto irriducibili a tali formule e schemi. Letture che non assumono le nuove libertà dei soggetti e dei loro processi di soggettivazione sotto i paradigmi che hanno consentito di riconoscere i processi di antropogenesi europei dei secoli passati, ma che sono aperti al riconoscimento positivo di ipotesi di costruzione sociale che provengono da quella che, sotto gli occhi di tutti, è diventata una società plurale, in via di ampia contaminazione etnica, culturale, sessuale.

Curiosamente sui quotidiani e nelle grandi arene televisive capita molto di rado di ascoltare letture di marca antiedipica, o decostruzionista, o etnopsichiatrica, o queer sui destini della famiglia, della castrazione, del desiderio. A parlare, in un sol epico e marziale coro, dagli scrittori-insegnanti incollati alle mitologie di una scuola e di un’adolescenza (peraltro solo nella loro privata autobiografia), tutta libri e belle lettere, politicamente attrezzata e serafica nell’olocausto dei propri godimenti a pro di carriere folgoranti, agli psicoanalisti convertiti definitivamente alla norma, che pilotano l’Edipo come una macchina da guerra all’incontrario, siamo costretti, sono costretto, a continuamente veder esecrata una gioventù che, personalmente, trovo molto meglio della mia, molto più informata, libera, meno dipendente, meno inibita, meno ideologica, una generazione che, anche grazie a cellulari e social network, scrive, scrive moltissimo e non solo poesie o diari lacrimosi e disperati, e che forse ci regalerà un mondo, me lo auguro, che ridimensioni definitivamente la famiglia come la conosciamo, e con essa una scuola che ha ancora gli stessi muri dei manicomi e delle carceri e che arranca da sempre a costruire interesse intorno alla cultura.

Per rimpiazzarle, mi auguro, con altre forme societarie e con luoghi dell’imparare finalmente scelti, consapevolmente, in cui ciò che si fa sia desiderabile, immediatamente godibile e, alla lunga in grado di suscitare non odio ma amore, amore per il sapere e per l’emancipazione che da un autentico sapere diffuso può derivare. Oltre gli schemi vetusti e il moralismo e il normativismo che cola dai nostri media asserviti, con i suoi testimoni – pochi, cattivi e privilegiati -, come pece bollente.

 

Paolo Mottana

 



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