24 aprile 2013

musica


 

I QUARTETTI DI BEETHOVEN

A distanza di vent’anni (ottobre-novembre 1993) dalla celeberrima esecuzione del Quartetto di Tokyo alla Scala, la Società del Quartetto di Milano sta riproponendo – in occasione del 150° anniversario dalla sua fondazione – una nuova “integrale” dei 16 Quartetti per archi di Beethoven – in realtà 17 con la Grande Fuga opera 133 – affidandoli questa volta a una giovane compagine italiana che, nonostante i suoi pochi anni di vita (è stata fondata nel 2000), si è già affermata in tutto il mondo come erede del grande Quartetto Italiano: si tratta del Quartetto di Cremona costituito da Cristiano Gualco e Paolo Andreoli violini, Simone Gramaglia viola e Giovanni Scaglione violoncello che – grazie anche agli straordinari strumenti di cui dispongono – sono tutt’uno con quella città, con le sue celebri liuterie e con l’Accademia Stauffer che ne tiene viva la memoria e le tradizioni.

Quella di martedì scorso era la seconda serata – delle sei in cui si suole organizzare l’integrale dei quartetti beethoveniani – e, come da tradizione, metteva insieme alcune opere giovanili con altre dell’età matura; in questo caso si trattava del terzo e del quarto quartetto dei sei di cui si compone l’opera 18 – scritti negli anni fra 1798 e il 1800 e primo cimento in questo genere dell’Autore non ancora trentenne – e del quartetto n. 12 opera 127, del 1824-25, primo degli “ultimi” (che seguiranno con i numeri d’opera 130, 131, 132, 133 o “Grande Fuga”, e 135, praticamente il lavoro “estremo”, terminato cinque mesi prima della morte). Poter mettere a confronto due epoche tanto lontane della vita di Beethoven è già in sé un’esperienza straordinaria; fra le due età vi è il passaggio del secolo, la meteora e la delusione napoleonica, il trattato di Vienna, soprattutto quel testamento di Heiligenstadt (ottobre 1802) con cui Beethoven prende atto della sua definitiva e irrimediabile condanna alla sordità. Fra i primi e gli ultimi quartetti il mondo intero è cambiato intorno a lui ma soprattutto è cambiato il suo mondo interiore; lo si sente prima concludere l’epoca classica e poi entrare con determinazione nella modernità.

Anche la struttura del Quartetto cambia radicalmente fra le due stagioni: nell’opera 18 i movimenti sono quelli canonici delle Sonate e delle Sinfonie (Allegro, Lento, Scherzo o Minuetto e un veloce Finale, come quasi tutti i quartetti di Mozart e di Haydn), mentre nell’opera 127 l’incipit è un “Maestoso”, subito dopo c’è un “Allegro” seguito da un “Adagio ma non troppo e molto cantabile”, poi un “Andante con moto” e ancora un “Adagio” ma questa volta “molto espressivo”; il terzo movimento è uno “Scherzando vivace” ma poi diventa “Presto” mentre il finale è un inusuale “Allegro comodo”. Il tutto a significare quanti, diversi e complessi, fossero i sentimenti che il Grande Vecchio (ma aveva solo cinquantaquattro anni!) intendeva esprimere.

Dicono Poggi e Vallora che il Quartetto d’archi sia “la più elevata e difficile delle forme musicali … il genere aristocratico per fini intenditori … il momento della verità di ogni compositore” e il fatto stesso per cui Beethoven gli abbia riservato l’estrema attenzione, quando già si sentiva mancare la vita, la dice lunga sul significato che doveva attribuire a questo genere musicale; al di là dell’interesse squisitamente musicale immaginiamo, che abbia avuto il senso dell’intima e profonda ricerca di un momento di raccoglimento o di confessione, una sorta di autoanalisi, forse addirittura di preghiera.

Ma la magìa del quartetto è racchiusa anche nella purezza del suono, omogeneo ma articolato, che sembra scaturire da un unico strumento con quattro voci in mirabile equilibrio fra loro; quattro diverse voci concordi, o un’unica voce che si dilata e rappresenta le sfaccettature e la complessità dei sentimenti più nascosti. Questa complessità e questa compattezza è proprio la cifra che caratterizza le esecuzioni dei quartettisti di Cremona; ascoltarli è come immergersi nella profondità del pensiero musicale senza sentire i dubbi che assillano l’impegno interpretativo né le difficoltà che accompagnano la fatica dell’esecuzione.

Una grande lezione di professionalità e di serietà che lascia pregustare la serata del 14 maggio, quando il Quartetto di Cremona tornerà per la terza tornata dell’integrale con l’esecuzione di uno dei massimi capolavori beethoveniani, quei tre quartetti dell’opera 59 universalmente noti come “i Razumovskij” dal nome dell’ambasciatore russo a Vienna cui furono dedicati. Una serata che non si potrà perdere.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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