17 aprile 2013

QUANDO LA SINISTRA CHIUDERÀ LA FORBICE TRA POVERI E RICCHI


È ormai dal 1996 che la sinistra italiana non porta a casa una vittoria elettorale convincente a livello nazionale: e ciò nonostante il suo principale avversario politico abbia attraversato la peggior crisi di credibilità dai tempi della “discesa in campo”. Rigirando ancor più il coltello si potrebbe addirittura asserire che la sinistra italiana abbia avuto così tante difficoltà a risultare convincente agli occhi degli italiani da indurli a creare dal nulla un nuovo competitor politico (Grillo) e riversargli addosso i voti che altrimenti sarebbero dovuti “piovere” sul PD.

Dove comincia questa crisi? È credibile la teoria del mancato rinnovamento dell’apparato? Non credo che il problema si possa ridurre a un difetto di comunicazione politica, anche perché altrimenti non si spiegherebbero i tre leader “bruciati” negli ultimi quattro anni, né lo scarso impatto del pur forte ricambio delle prime linee parlamentari.

Credo che il problema sia di sostanza e per dimostrarlo, a costo di sembrare fuori moda, mi affiderò a un po’ di sano materialismo storico. I numeri di finanza pubblica dimostrano che, nonostante spesa e debito siano cresciuti ininterrottamente dal ’50 a oggi e abbiano raggiunto nel 2013 livelli mai visti prima, la distribuzione della ricchezza non ha seguito il trend di perequazione che ci si sarebbe potuti aspettare. Pochi sanno (o meglio pochi dicono) che il momento storico di massima “re-distribuzione” il nostro Paese l’ha toccato nel corso degli anni ’60, quando spesa e debito erano vicini al 30% del Pil.

Al contrario di quanto si potesse immaginare ai tempi del “primo” centrosinistra, quindi, la “piramide della ricchezza” non ha fatto altro che accentuarsi, quasi come se la quota aggiuntiva di reddito nazionale confluita nella spesa fosse stata diretta a esclusivo beneficio dei ceti più ricchi della popolazione e non dei più poveri.

Naturalmente non è (solo) così: nell’andamento fallimentare della spesa pubblica ha avuto un ruolo determinante la scorretta allocazione delle risorse e in particolar modo il ruolo largamente preponderante della spesa corrente e quello assai marginale degli investimenti in conto capitale; l’andamento marginalmente decrescente degli investimenti, infatti, è la causa prima dell’arretramento della produttività, vero fattore critico nella competizione internazionale (specie quella verso i paesi con un costo del lavoro estremamente più basso di quello italiano).

Una prova? La Germania (impropria vittima dell’insorgente nazionalismo straccione di questa ultima campagna elettorale) pur riducendo la spesa pubblica complessiva è riuscita a preservare e, anzi, accrescere la quota di investimenti fissi, migliorando la già maggiore produttività del sistema. Insomma la classe dirigente di questo Paese non può più rispondere ai bisogni dell’elettorato con la classica formula “progressività delle imposte = maggior spesa pubblica = maggior eguaglianza sociale”. E già! Perché nel 2013 le tasse non si possono alzare né, considerato l’andazzo dei mercati finanziari, si può immaginare di fare ulteriore ricorso al debito pubblico!

E allora il dibattito dovrebbe in questo momento vertere non tanto sul nome del possibile leader o sull’efficacia delle primarie (temi sicuramente appassionanti), ma su quale possa essere la nuova formula alla base dell’elaborazione delle politiche economiche del nostro Paese. Può essere ad esempio accettabile l’idea di ridurre il peso dello Stato in economia? Può essere accettabile l’idea di tagliare le tasse? Si può immaginare un nuovo ruolo dello Stato come difensore della creatività industriale e “amico” del capitalismo 2.0 (quello per intenderci delle “dot com” e delle rinnovabili) e non più come foraggiatore delle grandi aziende in crisi?

Mi rendo conto che può suonare davvero strano all’orecchio dell’elettore “classico” di area l’uso di formule che “puzzano” di liberismo eppure, ancora una volta, qual è l’alternativa? Esiste davvero una alternativa? Io credo di no e, anzi, sono convinto che sia necessario abbandonare le lotte di retroguardia proprio per difendere l’impalcatura fondamentale di quei servizi sociali che non possono e non debbono immaginarsi fuori dalla sfera pubblica (sanità, nuovi poveri, assistenza sociale e ai disabili, per citarne solo alcuni): il rischio di arroccarsi è proprio quello di non offrire al Paese una soluzione e di venire travolti dall’onda montante dei “populismi informatici”.

Non lo si vuol fare? Bene, la conseguenza sarà l’imbarazzato balbettìo di formule vuote del tipo “il lavoro al centro” che hanno fatto la fortuna di chi, dall’altra parte, parla chiaro. Dicendo balle invereconde, magari, ma parla chiaro.

 

Lucio di Gaetano



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