9 aprile 2013

“AFFAMARE LA BESTIA” PER RIFORMARE I PARTITI?


“Affamare la bestia”. Nelle settimane scorse, nel corso di una delle tante bufere che hanno attraversato i partiti politici italiani, Antonio Polito, sul Corriere, usò questa espressione molto dura che esprimeva la convinzione che dopo vent’anni di agonia solo il blocco dei finanziamenti pubblici avrebbe indotto quel ripensamento indispensabile delle forme organizzate della rappresentanza politica che chiamiamo partiti. Senza traumi niente cambiamento soprattutto per organizzazioni burocratiche la cui propensione naturale è ad autoriprodursi, autogiustificarsi.

Ora il trauma c’è: nel pieno della crisi è diventata opinione diffusa che coloro che vivono di politica sono troppi, costano troppo e “producono” troppo poco. E “coloro che vivono di politica” è un insieme molto più ampio del problema di come si organizza la rappresentanza politica cioè la forma partito. Ma da questa certamente dipende. Ed è quindi necessario e urgente partire da qui. Da un ripensamento coraggioso del ruolo e delle modalità organizzative dei partiti politici. Cioè delle forme organizzate della rappresentanza politica.

Sono almeno venticinque, trenta anni che questo problema è maturo e adesso sta marcendo. Eppure ci si arriva tardi e impreparati. Continuando a mettere pezze che non sono frutto di una visione d’insieme.

Ormai è chiaro che la qualità della nostra democrazia, cioè la sua efficacia, passa anche da qui perché questo è un mattone essenziale della costruzione di istituzioni efficaci, cioè capaci di produrre soluzioni legittime e sostenute da un sufficiente consenso. Leggi elettorali, istituzioni rappresentative, partiti politici, strutture di controllo che non possono che essere terze anche per la politica come per le imprese, devono comporre un insieme, un sistema. Il trauma del taglio delle risorse può essere quindi un’opportunità. Da dove partire? A mio parere vi sono alcuni assunti di fondo sui quali fare chiarezza e dai quali dipendono di conseguenza le scelte operative.

1. Il primo è legato alla concezione stessa di partito. Questo nella nostra società non ha più ragione di essere un qualcosa che si partisce dal resto della società, né tanto meno intende costituire il nucleo essenziale di una nuova società, di una società futura, non si pone l’obiettivo di formare un uomo nuovo. Questa forma organizzativa era funzionale alle ideologie del novecento, alle religioni laiche del secolo scorso. Non ne voglio discutere qui, ci basta convenire sul fatto che non sembrano più adeguate ai problemi che dobbiamo affrontare oggi. Il partito politico, che rimane un qualcosa di indispensabile alla democrazia, deve viversi oggi come il cardine tra la società civile e le istituzioni. Un punto di snodo essenziale al buon funzionamento delle istituzioni della rappresentanza.

2. Se questo è il primo assunto, ne consegue che il core business di un partito politico debba essere costituito dalla selezione (reclutamento e riconferma) del personale che viene candidato nelle istituzioni amministrative e di governo. Non credo ci sia nulla di male a delimitare questa funzione per farla diventare importante e centrale. Le elezioni, la selezione dei candidati e il voto liberamente espresso sono il cuore delle democrazie. E questo cuore appare abbastanza malandato, a dire il vero.

3. Legato a questi due primi punti ve n’è un terzo a mio parere essenziale: la sovranità. Essa appartiene al popolo non agli iscritti. E quindi io propendo – le penso forme più efficaci – a processi decisionali di partito aperti, il più aperti possibili (le cosiddette primarie). Visto che il giudizio determinante sarà quello del popolo sovrano è meglio che l’organizzazione venga plasmata dalla sistematica ricerca del coinvolgimento dell’elettore. Sì, anche per il dirigente del partito. Ma questo problema si stempera se si trae un’altra conseguenza da quanto detto. Quelli che contano davvero sono gli eletti nelle istituzioni non i dirigenti politici, i funzionari politici. Un partito che non si candida a farsi stato, che vive in funzione delle istituzioni democratiche sposta il proprio baricentro verso gli eletti perché sono loro che sono stati legittimati dal voto popolare. Ai funzionari di partito spetta e rimane una funzione di coordinamento ma non di decisione sovraordinata.

Chiarisco con casi pratici che il PD sta vivendo in queste settimane e che a mio parere mettono a nudo le difficoltà e le contraddizioni: la direzione organismo “nominato” quattro anni fa da un’assemblea del partito decide quale atteggiamento devono avere verso il Governo i gruppi parlamentari eletti dal popolo nel 2013; secondo caso pratico: il sindaco Pisapia, espressione della primavera arancione, decide come modificare la giunta parlandone con il segretario federale e con quello regione del PD. In questi comportamenti pratici predominano i dirigenti di partito sugli eletti e a mio parere la cosa non funziona. Crea un dualismo che va sciolto a favore degli eletti.

4. Che resta delle presenze diffuse e della militanza se il baricentro si sposta verso gli eletti? Non certo “sezioni”, cioè partizioni di un corpo unico cui si affida soprattutto l’azione in una visione top down. Ma circoli, club, associazioni, centri d’iniziativa animate dalla passione del vivere per la politica e che convergono nei momenti essenziali della selezione dei candidati, palestre per il reclutamento e la selezione. Certo, in una collaborazione anche conflittuale con gli eletti che devono essere consapevoli che buona parte della loro capacità di rappresentare è legata anche al rapporto con queste presenze diffuse su territorio. Gli eletti come professionisti della rappresentanza e i circoli come collettori della partecipazione politica, della voglia di essere e sentirsi parte di un progetto collettivo, cioè di essere presi in considerazione e contare. Certo con tutte le peculiarità del tempo dominato dalla tv e dalla rete.

5. Quindi un partito politico pienamente integrato in una società democratica non ha bisogno di scuole (si pensi al rilancio simbolico delle Frattocchie!) per affermare la sua visione del mondo ma ha bisogno di legami, connettori con i luoghi dove queste visioni maturano, cioè il sistema formativo nel suo complesso, per costruire think tank che connettano lo studio con la decisione pubblica. Chi fa politica deve sapere di non sapere piuttosto che pensare di sapere tutto anche se è stato votato. Il voto non dà competenza se non alla capacità di rappresentare. E tra principio di competenza e principio di rappresentanza il conflitto è permanente e va risolto di volta in volta con equilibrio perché ne va della democrazia e dell’efficacia del sistema a produrre decisioni efficaci.

6. Un partito politico di questo tipo è quindi un partito che costa meno perché non ha strutture centrali e soprattutto non ha funzionari politici (ed è un sistema che deve “piazzare” meno personale in enti e istituzioni collegate). Cioè persone che svolgono l’attività di organizzatori a tempo pieno preparandosi e predisponendo le cose per essere prima o poi candidati con successo. Senza la certezza di essere eletti è chiaro che il funzionariato diventa un’attività impiegatizia di natura più tecnica che può essere affrontata appunto come tale.

Quindi un partito adeguato al tempo della rete, un partito che ha scelto fino in fondo la democrazia e le sue implicazioni è soprattutto un arcipelago di presenze connesse tra loro dal desiderio di affermare idee candidando persone alle cariche che permettono appunto la trasformazione di queste idee in politiche pubbliche. È un partito che ha certo più bisogno di servizi che di risorse economiche (soprattutto non elargite al centro ma diffuse sul territorio). Ma tra forma partito, regole elettorali, sostegni, verifiche è controlli deve esserci coerenza.

 

Mario Rodriguez

 



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