9 aprile 2013

BERSANI: MA NON È TUTTO COSÌ BANALE


Troppi silenzi nella sinistra sugli errori di Bersani. In parte è “carità di patria”. Io stesso mi sono espresso nelle riunioni ma non ho avuto cuore di scrivere pubblicamente fino a ora. Può essere stato lo shock ma la cerchia dei viciniori ha fatto due altri ragionamenti: a) quelli che “se cade lui cadiamo anche noi” dunque non mollare; b) quelli che “se lui va a sbattere, poi tocca a noi” (peccato che insieme a lui vada a sbattere tutto il PD). È proprio il caso di dire “Dagli amici mi guardi Iddio”…

C’era un ragionamento semplice da fare dopo il voto. Del 75% degli aventi diritto che hanno votato il 70% ha scelto un candidato primo ministro diverso da Bersani. Poiché Bersani si era candidato a fare il primo ministro doveva prenderne atto e dire “gli elettori non mi vogliono primo ministro, mi hanno dimissionato”. In fondo nel 2000 D’Alema si dimise per molto meno (dalla carica e non dalla candidatura!) per una sconfitta “locale” nelle regionali avendo il centrosinistra perso 8 a 7.

In questo modo, con un mezzo passo indietro, Bersani avrebbe potuto svolgere un ruolo di saggio traghettatore alla nuova fase. L’apertura a Grillo sarebbe stata più credibile se aperta su contenuti e persone invece che preconfezionata (8 punti e Bersani premier, prendere o lasciare.).

Ora solo uno eventuale degli obiettivi di Bersani (andare a votare) potrebbe realizzarsi, ma in un quadro di indebolimento della sua forza, non solo personale ma politica. Insomma ha seguito la strada “Muoia Sansone con tutti i filistei…”. Se uomo (o donna) di transizione uscirà, non sarà farina del sacco PD.

Se troveranno un’intesa su alcuni provvedimenti urgenti per superare il guado della credibilità internazionale, si aprirà nel PD e nel centrosinistra una lacerazione ancora più forte su quali prospettive, quale progetto, quale leadership può offrire un futuro alla sinistra italiana. Perchè se una cosa ha dimostrato la scadenza elettorale è che il “basso profilo” (per scelta o per necessità) non è sufficiente a nascondere le contraddizioni e a garantire consensi e credibilità. Il “racconto zero” di Bersani (come l’ha chiamato il semiologo Alberto Negri su ArcipelagoMilano n.10/V) nella battaglia comunicativa delle elezioni è stato disastroso.

Ora il centrosinistra si trova davanti a un bivio: fare una scelta identitaria (cosiddetta “di sinistra”) che rassicura alcuni apparati (darà sempre ragione al sindacato…) e tiene unita una certa “pancia” di tradizione ideologica oppure fare una rivoluzione liberale come quella appena impostata dal Veltroni del 2007 allargando i consensi al di là degli steccati con più chance elettorali ma anche con il rischio di ennesime scissioni a gauche. Se dovessimo guardare alla storia di questi anni, il responso sarebbe presto detto. Nessuno ha mai osato (dopo il Craxi dell’84 sulla scala mobile) andare contro la Cgil, nessuno della storia post comunista ha accettato di “avere nemici a sinistra”.

Ma il fatto nuovo sta nel cambio dei meccanismi elettorali e comunicativi e del personale politico. Con l’elezione diretta di sindaci e presidenti di regione il ruolo della persona candidata torna importante. Partiti e coalizioni perdono di senso. Nelle campagne elettorali la capacità di un leader di rendere credibile un racconto, di dipingere scenari, di coniugare la vita reale con le prospettive politiche, sposta parecchie posizioni storicamente impiantate in un terreno ideologico che è sprofondato. Dunque nella scelta della sinistra conterà anche la credibilità di leader nel rappresentare una scelta e nel comunicarla.

La novità della situazione è che con Renzi la sinistra “liberal” ha oggi un leader giovane e credibile che “sfonda” in elettorati prepolitici, che allarga il consenso al centro e a destra, che concorre con Grillo sul tema del cambiamento. Chi concorrerà con Renzi per la leadership della sinistra? Fabrizio Barca? Giuliano Pisapia? Laura Boldrini? Per ora quello che è certo è il perimetro di partenza di queste potenziali candidature. Un perimetro importante, dignitoso ma assolutamente insufficiente a vincere un’elezione politica in questo paese. Riuscirà qualcuno di questi eroi ad andare oltre? Vedremo.

Certo in questa scelta ne va anche del futuro del PD. Ha senso un “partito democratico” se poi a ogni occasione elettorale o di primaria, una parte si ritrova con i vecchi “compagni di merende” e una parte serve solo a raccogliere consensi per poi essere messa da parte? Le vicende di Boeri a Milano, ma anche il voto alla candidata SEL di autorevoli esponenti PD alle primarie di Cinisello, parlano esplicitamente di un gruppo dirigente che non c’è.

Anche qui si è fatto del “basso profilo” una filosofia di vita. La fedeltà al sindaco è cosa buona e giusta, ma la subalternità, l’inconsistenza e la connivenza nell’eliminare soggetti “diversi” è un’altra cosa… . Anche a Milano il PD ha bisogno di una nuova stagione. Ma questa è un’altra puntata.

 

Pier Vito Antoniazzi



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